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Vincenzo Gerace

Poeti contemporanei: Alfredo Luciani

("Il Mondo", Domenica, 19 febbraio 1922)

 

Ritratto di Alfredo Luciani

1922

 

Di questo poeta vernacolo abruzzese non c'è persona 'in Roma che, vivendo nel mondo degli intellettuali, non abbia conoscenza, se non profonda, almeno superficiale, per averlo forse veduto gesticolare, esaltato e facondo, a un tavolo di caffè in un cerchio d'amici o per avergli sentito recitare, con quella sua maniera piana e sobria, piena di pause e di gridi repentini, la serie dei suoi versi armoniosi.

Occhi chiari, che hanno insieme un che di bonario e di allucinato; parlatura fresca e sincera, gonfia talvolta di enfasi lirica; una malinconia tragica che si placa in espansioni verbose e si volge repentini in clamorose risate; una giocondità gioviale di buon compagno, che si fa pensosa a ogni tratto, si svia in considerazioni malinconiche, si distrae dalla realtà , contingente in aforismi ingenui e solenni di carattere universale; un persistere perpetuo dei suoi discorsi sull'oggetto dell'arte, della sua arte, dei suoi problemi tecnici per lungo tempo teoricamente insolubili che si risolvono a un tratto, con sua meraviglia, spontanei: una fissazione costante, una vera ossessione dell'arte; un uomo che si confessa dalla prima frase, si  confessa tutto, nei suoi scoramenti e nei suoi legittimi orgogli, nelle vae manchevolezze e nelle sue virtù; che ti pone subito al corrente delle sue vicende familiari dolorose e delle sue oneste gioie di marito felice e di padre beato di tre bimbi adorabili; un uomo buono, insomma, un uomo semplice, nel senso più alto della semplicità morale: ecco Alfredo Luciani.

 

E' facile immaginare che un tale uomo, così com'è naturalmente repugnante a tutte le strettoie delle convenienze sociali per abito nativo di sincerità; così com'è insofferente, per istinto, d'ogni convenzione morale che il suo buon  senso di montanaro confuta, di volta in volta, e spacca in due col taglio affilato del sillogismo più candido; così come ama una vita libera d'ogni coercizione della legge comune. e, nei limiti del possibile, attua, nella sua vita empirica d'ogni giorno, questo suo gusto di libertà, tradotto spessi in una specie di vagabondaggio estetico in cerca di emozioni e di conquiste spirituali: identicamente nel suo ideale dell'arte, aborre da ogni limite tradizionale, rompe ogni legge estrinseca, cercando al fondo dell'animo suo la sua legge individuale.

La quale attitudine mentale, come ha i suoi grandi pregi, ha insieme i suoi grandi difetti: e questi consistono in una disposizione a trapassare i termini dell’equilibri, della misura, della compostezza.

Fortunatamente, in questo poeta, l’istinto dell’arte è così profondo e nativamente gagliardo che basta da solo, senza altro soccorso autocritico di riflessione, a tenerlo saldo nel cerchio delle armonie formali: del che sono mirabili testimonianze, fra gli altri, i sonetti Lu Palazze, Li cardille, La desolazione, in questo volume di poesie ch’egli pubblica con i tipi di Ricciardo Ricciardi: edizione splendida, liminosamente ornata dalle xilografie splendide di Armando Cermignani.

 

E' vecchia quistione, assai dibattuta nel mondo dei poeti dialettali, se la poesia vernacola debba o no liberarsi dal gergo particolaristico di ciascuna regione e aspirare all'onore e al decoro di linguaggio comprensibile a tutta la nazione, per un accostamento il più vicino possibile ai modi e alle forme e allo stile della lingua nazionale. E le opinioni su ciò sono assai discordi e antitetiche: militando a favore dei negatori di tale riforma dei dialetti la evidente ragione che un tal processo di epuramento arbitrario sfibri le caratteristiche locali del linguaggio, tolga sapore e verginità alle espressioni, riduca generico e scialbo ciò che ha suo pregio appunto dall'essere accento e riflessione e parlatura di questa regione e di nessun'altra, di questa e di nessun'altra città o villaggio; e militando a favore della tesi opposta la evidente ragione che l'abuso del gergo e del lessico locale limiti l'ispirazione del poeta in termini troppo angusti e paesani e quasi contadineschi e, a ogni modo, inferiormente popolareschi, riducendo il suo canto ai soliti vecchi motivi del costume, alle solite macchiette ironiche o malinconiche, a puro colore, a pura obbiettività pittoresca, intralciandogli o al tutto vietandogli ogni più libero volo della sua soggettività lirica, del suo particolar modo di sentire i valori della vita in ciò che hanno di trascendente sull'ambiente provinciale e di proteso verso significazioni più vaste di carattere universale. Naturalmente, come in tutte le questioni teoriche di genere estetico, anche in questa, la ragione non sta tutta intera da una parte ; e la soluzione del problema si ha solo nell'atto che la teoria diventa pratica.

Tutto sta a tenersi in quel giusto mezzo che rappresenta l'equilibrio tra la uni versalità lessica e lirica, da una parte, e, dall'altra, il colore locale. Certo è che ogni dialetto, entrato che sia nell'uso letterario e trattato come materia idonea alle opere dell'arte, di sua natura tende a epurarsi e universalizzarsi. Come risulta da questo libro di , Poesie, il Luciani parteggia per questa riforma del linguaggio vernacolo, non solo quanto alla materia lessicale che non vi si può dire propria di una o di un'altra città d'Abruzzo, ma di tutta intera la regione, sì bene anche quanto alla grafia, ch’egli accosta, nei limiti del possibile, a quella della lingua letteraria italiana. E senza dubbio, in questo suo atteggiamento stilistico, il suo temperamento poetico si adagia in tutta l'ampiezza del suo lirismo; come risulta da quella poesia Lu lupe che fu offerta come primizia alla ammirazione dei nostri lettori in questa terza pagina, e che stupisce per la universalità di quel suo sentimento di pietà francescana così virile e gagliardo, non meno che per la freschezza primitiva e quasi contadinesca dei suoi modi energici e dei suoi ritmi quasi selvaggi.

 

Lirismo, dunque, amplissimo e incondizionato, quanto è concesso ai poeti che trattano la lingua nazionale, e, insieme, colore locale, accento d'Abruzzo, sapore di terra, a piene mani; e fra l'uno e l'altro elemento nessuna discordanza, anzi fusione pienissima e calda.

Amore della sua donna, a volte infuso di mistica gentilezza, a volte lieto di una quasi bacchica sensualità; gioia dei convivi fra ghirlande di amici in cospetto dell'Adriatico, con accompagnamento di canti paesani e suoni di chitarre; cacce errabonde su per i gioghi deserti della Maiella, attraverso boschi di sugheri e castagni; la vita misera del popolo, la sua sanità morale, la sua profonda religiosità; e tutti i dolori del poeta, tutte le sue affezioni, tutte le sue avversità; la sua vita ribelle, le sue lotte asprissime contro il pregiudizio familiare e paesano, per far sua, con nozze legittime, la sua donna, nata nei campi e povera e perseguitata; la casuccia le cui finestre non hanno impannate, dove si patisce il freddo e la fame, ma dove la sua bimba, col suo primo vagito, col suo primo sorriso, spande uno splendore regale; un sentirsi popolano col popolo, coi miseri miserabile, coi vagabondi randagio, lui signore di terre, dalle quali è in bando per malvagità degli uomini e per amore della sua libertà morale; accenti di gioia e più spesso di disperazione; amore per i suoi simili e, più spesso, dispregio; gridi di ribellione e gemiti di rassegnazione cristiana: ecco la materia di questo libro di liriche vernacole: materia drammatica, appassionata, talvolta perfino selvaggia.

Tutto in questo poeta è umanità, niente è letteratura. Pure egli ha capacità di dire nel suo dialetto sentimenti vaghi e indefiniti, quali appena sanno dire in lingua letteraria italiana i poeti capaci delle più profonde eleganze.

Valga per tutti questo esempio. Nel sonetto La desolazione egli ha una visione apocalittica del mondo. Poichè la sua anima è distrutta nelle sue più alte speranze, tutto il mondo gli appare una infinita e lamentevole rovina. Ecco le due terzine stupende :

 

La terre à deventate na pianure.

e sta pianure, è tutte campusante..

Che selenzie: è nu secule che dure!

 

J' sole vive! e poche me remane:

Nannà me jace sfraggellate accante!

Lu vènte sone l'ùteme campane...

 

Ma, il capolavoro del libro è questo sonetto, intitolato Lu palazze:

 

J' tenghe assai luntane na famiglie,

a nu palazze de na sola stanze;

ma alla sposa me' iè bast' e avanze,

se ce cape la rise de na figllie!

Ma ce cape, le sette meraviglie:

e sole e strille e vènte;

e'nn è abbbastanze?

E ajjugnece canzune, a miglie a miglie,

e li suspire de la luntananze...

E' notte; e ssa fenestre è già serrate:

le rennelelle dormene allu• tette,

e vu pure ve sete culecate.

La fenestrelle è chiuse: pace e sonne!

Gesù bambine, da cap’allu lette,

dorme pur'isse, 'n bracci-alla Madonne!

 

L'assoluta perfezione tecnica e lirica, di questo sonetto, la sua profonda passione e dolcezza, la sua religiosa armonia non hanno bisogno di commento.

Non dubitiamo di qualificarlo un capolavoro del genere, degno di stare a paro dei più puri sonetti (e sono così rari !) della nostra letteratura nazionale.

Come ognun vede, la sua bellezza, che possiamo ben dire classica, sorpassa di gran lunga gli angusti limiti della letteratura vernacola, sconfinando nei cieli della poesia assoluta, ove anche il vernacolo s'inazzurra d'eternità.

Vincenzo Gerace

 

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