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Salvatore Rubini

La chiesa di San Matteo ed il movimento d’arte barocca a Teramo

in "Teramo. Bollettino mensile del Comune di Teramo", anno III (1934), n. 9-10, sett.-ott., pp. 11-25;

Le immagini e le didascalie sono quelle contenute nell'articolo originale

 

 

 

Nella prima metà del secolo XVIII alcune principali chiese teramane, per influsso di correnti giunte dalla vicina Ascoli Piceno, vennero, adattandosi alla moda dell'epoca, rimodernate nello stile barocco; sorto, come usavano ripetere i Gesuiti e le Corporazioni religiose del tempo, per mantenere viva la fede nel popolo, con lo splendore e la magnificenza.

Arte di lusso, sfarzosa, smagliante e rifulgente nel nome del grande Bernini, maestro d'inventiva e di statica.

I rimaneggiamenti, le sovrapposizioni di goffe ed insulse opere a stucco, le successive male appropriate dorature e tinteggiature, distrussero in gran parte, e con furia devastatrice, le opere di stile create dai buoni artieri. Del puro barocco restarono solamente segni ancora lucidi nel Duomo (attualmente riportato allo schema medioevale), nelle Chiese di S. Matteo, dello Spirito Santo, di S. Giovanni, delle Grazie per la sola torre campanaria. Notevoli impronte barocche s'incontrano in qualche altra chiesa minore ed in taluni edifici privati.

La trasformazione barocca del Duomo venne iniziata nel 1739 da un Vescovo pugliese Tommaso Alessio de' Rossi, gentiluomo di Nardò, che nel governo della Chiesa teramana portò il fasto e la munificenza di un Vescovo Principe. Anima d'esteta, la sua terra salentina gli aveva impresso nell'occhio curioso la gioia delle fioriture barocche.

La fabbrica, accudita personalmente dal de' Rossi, comprendeva il rifacimento della Chiesa guidiana, nonchè della posteriore nave arcioniana, con disegno tirato da forestiere architetto. Dal nome trascritto sopra una pianta rinvenuta nell' archivio vescovile da Mons. Giovanni Muzj, si conosce che l'artefice ingegnoso appartenne alla famiglia dei Giosafatti di Ascoli Piceno. L'esecuzione del lavoro si ricollegava, adunque, alla feconda attività di questi architetti ascolani, di origine veneta, che tante opere lasciarono nella loro patria e nel vicino Abruzzo teramano (Cantalamessa-Carboni - Memorie intorno i letterati e gli artisti della città d'Ascoli nel Piceno).

La maniera classica dell'insieme, lo stile semplice e severo, la decorazione sobria, e qualche grazioso ardimento architettonico (i non comuni archipensili della nave arcioniana) ricordavano appunto l'opera berniniana dei Giosafatti, educati alla scuola romana. Giuseppe Giosafatti, scultore ed architetto, nacque ad Ascoli nel 1642 e morì nel 1731. Studiò, insieme col suo congiunto Lazzaro Morelli, a Roma, sotto il Bernini. Nella sua terra marchegiana compì insigni opere di plastica e di architettura, con proporzioni assai equilibrate, e mercè la regola appresa dal suo grande maestro. Vi adornò con fantasiose decorazioni, popolate da graziosi irrequieti putti, chiese e palazzi, sfoggiando facilità di modellature, sbrigliatezze prospettiche, semplicità non disgiunta da eleganza e bellezza. Lavorò fino alla sua estrema vecchiezza, coadiuvato dal figlio Lazzaro, anche architetto e scultore, allievo del Rusconi. Lazzaro, dopo la morte del padre, ne continuò, lodevolmente, la scuola e la tradizione, insieme con i suoi fratelli ed aiuti Lorenzo, Pietro ed il prete Don Giosafatti.

La Chiesa di S. Matteo rinnovata anteriormente al Duomo, tra il 1707 e 1713, è, nei rapporti stilistici, improntata tutta alla maniera dei Giosafatti. Il portale stesso, costruito con pietra ascolana, viene, con ragione, attribuita dal Palma ai Giosafatti.

 

Interno del demolito Duomo barocco di Teramo.

Parte centrale della nave superiore

 

Altre secondarie reliquie di costruzioni sacre barocche restano tuttora nella città nostra: l'interno della Chiesa di S. Giovanni, la facciata ed il portale gemello di S. Matteo nella Chiesa dello Spirito Santo, il campanile nella Chiesa delle Grazie, sopra ricordato. Alcuni leggiadri altari barocchi si conservano nella chiesetta di Santa Caterina, da annoverarsi fra i migliori tra quelli dell'epoca e che ancora restano negli altri luoghi pii.

L'architettura civile teramana, diversamente da quanto si era verificato nella maggior parte delle città italiane, non adottò, con troppo entusiasmo, il nuovo stile; poichè, inspirata da quella tradizionale semplicità di vita provinciale, preferì conservare i vecchi edifici nella loro forma originaria, modestamente rimodernati. Pur tuttavia affiorano qua e là avanzi di costruzioni barocche, come nel Seminario Aprutino ed in alcune logore fabbriche sparse nell'interno della Città.

Notevoli contributi invece diede l'arte barocca alla lavorazione del legno e del ferro battuto. Ottime sculture lignee barocche troviamo ancora nelle nostre chiese; come il coro e la suppellettile in noce della Cattedrale, l'altare scolpito dal laico cappuccino Palombieri nella Chiesa di S. Benedetto (ora dei Cappuccini), ed altri buoni lavori decoranti i rimanenti luoghi sacri.

Flessuose ringhiere in ferro battuto cingono, in alcuni punti dell'abitato, romantici balconcelli seicenteschi o settecenteschi, fioriti di gerani e di garofali.

Nei secoli XVII e XVIII buone opere lasciarono da noi anche le arti figurative del barocco, per influenze di vicine scuole, particolarmente la napoletana. Tra gli artisti più noti citeremo: Giacinto Brandi, Sebastiano Majeschi, Pietro Bardellino, Vincenzo Baldati etc.

Manifestazioni di arte barocca, irradiate da Teramo, s'incontrano anche in molti luoghi prossimi alla Città.

Campato dalle deturpazioni, rimane, conservato integralmente, il tempio barocco di S. Matteo, bianco mistico asilo settecentesco, ricco d'un passato illustre, nelle vicende della storia teramana.

Il cronista Muzii, (Dialogo terzo) fa risalire il primo nucleo del fabbricato (sito nella città nuova) al sec. XV, senza, pertanto, precisarne l'epoca della fondazione. Annota soltanto che prima era Ospedale e poscia divenne Monastero di monache.

Dalla storia del Palma però desumiamo che lo stabilimento ospitaliero esisteva sin dal 1385, trovandosi esso ricordato in un Quaterno, aggiunto al Liber censualis del Capitolo Aprutino.

Il medesimo storico narra che rientrato in Teramo Giosia Acquaviva ai 18 maggio 1459, pel secondo periodo della sua dominazione, la Città, nelle solite forme, e con pubblico istrumento, prestò giuramento di vassallaggio al novello Signore nella Chiesa di S. Matteo, non discosta dalla Cittadella (in S. Giorgio), residenza del Duca.

È certo ancora che nel secolo XVI la Chiesa apparteneva all'Università di Teramo, la quale aveva adibita a Civico Ospedale la parte dello stabile non destinato al culto.

Verso la metà dello stesso secolo Piacentina de' Cappelletta, vedova di Marco Princi di Teramo, desolata per la morte dei figli, decise trascorrere il rimanente della sua vita in un monastero, da edificarsi e dotarsi da lei stessa. Supplicò all'uopo il Parlamento della città affinché le cedesse la chiesa e l'ospedale di S. Matteo, insieme con le rendite. Il Parlamento condiscese, a condizioni che le monache avessero a mantenere l'ospedale. Tale patto non piacque a Piacentina, la quale, servendosi della ragione speciosa (come osserva il Palma), che le cose offerte a Dio devono essere scevre da qualsiasi limitazione e riserve, impetrò dalla Santa Sede la derogazione della volontà di coloro che avevano lasciato i beni all'Ospedale, ed agì tanto efficacemente, da ottenere dai Signori del Magistrato, con risoluzione del primo marzo 1538, una cessione assoluta.

 

Interno del demolito Duomo barocco di Teramo.
Parte della nave laterale

 

Posta ella in possesso nel dì 28 giugno 1538 (Atto stipulato da Giovan Filippo Iracinto) invertì, per concessione di Paolo III, l'Ospedale in un convento di benedettine. Attese poscia alla fabbrica relativa assistita da due deputati eletti dal Parlamento, il quale conservò sul monastero un certo patronato per alcuni divieti che si leggono nell' istrumento notarile: ossia di non potersi ricevere monache non appartenenti a famiglie teramane, e senza l'espresso consenso dell'Università; di riservare la nomina dei censori e degli amministratori al Giudice ed al Reggimento pro-tempore della Città.

Dalle risoluzioni dell'Amministrazione civica e giudiziaria del nostro Comune demaniale conosciamo che dai Sindaci venivano eletti ogni anno due procuratori (Sacrarum Aedium Aediles) per le Chiese principali, fra le quali era assegnata quella di S. Matteo.

Sette anni dopo l'avvenuta cessione troviamo la fabbrica già compiuta ed abitata da un numero sufficiente di religiose, le quali vennero poscia istituite erede da Giovanni Montanari soprannominato Malacarne. Ma sembrando tuttavia le entrate insufficienti alle necessità ed ai comodi delle monache, la vigile Piacentina ottenne dal Vescovo Giacomo Silverio l'assegno della Prepositura di S. Eleuterio a Campora, dietro consenso del Capitolo Cattedrale.

Non pochi dissidi questo possesso causò alle monache di S. Benedetto, finché a definirne le molestie intervenne il Rescritto di Benedetto XVI che ne legittimò, con tale atto, la proprietà. Il catasto dei beni di S. Eleuterio venne conservato nella Chiesa di S. Matteo. Una preziosa descrizione statistica di Teramo, fatta dal Capitano della Città Fabrizio Scorziato ai 18 ottobre dell'anno 1596 al Viceré Conte di Olivares ci fa conoscere che nell'epoca stessa il convento benedettino ospitava 36 religiose e che la Chiesa di S. Lorenzo fuori di Porta Regale apparteneva alle monache di S. Matteo.

Nel corso del sec. XVIII il Monastero, mentre svolgeva fecondamente la sua operosità benedettina di preghiere e di lavoro (silente oasi fra le vicessitudini or liete ed or tristi dell'attività politica e religiosa cittadina), venne sconvolto da due disgraziati avvenimenti; il primo, assai pietoso, si riporta ai 29 dicembre 1745 (Palma):

 

Interno del demolito Duomo barocco di Teramo.
Parte della nave laterale con archipensolo

 

Avevano le monache trascurato il restauro dei tetti della sacrestia e del coro, e, più specialmente, d'una muraglia pur di clausura. Per questa grave negligenza la sera del predetto giorno, mentre trenta religiose recitavano insieme la compieta, caddero i tetti e la muraglia seppellendo sotto le rovine quindici suore, compresa la badessa. Le disgraziate rimasero tutte morte, a riserva di Donna Anna Catarina Salamiti, la quale, estratta viva dalle macerie, spirò due giorni dopo.

Il Preside militare Brigadiere Emmanuele De Leon, in quel tempo Comandante della Provincia di Teramo, al primo annunzio corse subito a S. Matteo e, con molto zelo, tentò apprestare i soccorsi a quelle infelici. Fece guardare giorno e notte il monastero da due gentiluomini e da un picchetto di soldati fino a che la muraglia esteriore non fu ricostruita.

Quale velo lugubre dovette distendere sulla Città il tragico fatto è facile immaginare!

Il secondo avvenimento, anche grave per le conseguenze che ne seguirono, si riporta ai 29 dicembre 1777 (Palma), a causa delle brighe del Vescovo Pirelli con alcuni gentiluomini teramani:

Fin dall'agosto del 1776 Monsignor Sambiase aveva introdotto nel Monastero di S. Matteo tre napoletane di cognome Bronsuoli (il Campana da una Cronaca inedita riporta Brenzole). Le monache le avevano ammesse a noviziato; ma, in seguito, malcontente di esse, pregarono il Vescovo Pirelli a toglierle, e, segnatamente, dopo che congregate in capitolo, ai 22 dicembre 1777, a maggioranza di voti avevano escluso dalla professione queste novizie.

 

Chiesa dello Spirito Santo. Portale

 

L'indolenza (vera o voluta secondo il Palma) del Pirelli nell'emettere l'invocato provvedimento indusse sette monache ad un passo stravagante. Alle ore undici del giorno 29 dicembre 1777 esse, uscite dalla clausura, con croci inalberate, si recarono nella vicina chiesa di S. Giorgio (il Campana dalla Cronaca citata riferisce di S. Anna), presso la casa Tullj, distrutta nel 1798. Dal luogo pio le irate suore inviarono lettere al Preside, all'Avvocato de' poveri Sig. Marcello Pompetti ed ai Pubblici rappresentanti, protestandosi e minacciando di non rientrare nel chiostro se prima non fossero da esso estratte le Bronsuoli.

Le rimostranze del confessore del convento Padre Eugenio da Civitella Esprovinciale cappuccino, quelle di parecchie gentildonne, dell'avvocato de' poveri, del Preside, e (un poco tardi) del Vescovo Pirelli, fatte nel giorno stesso, allo scopo di far recidere le monache dagli insani propositi, furono gettate al vento. Per modo che all'indomani, il Vescovo Pirelli fu obbligato ad estrarre, di concerto col tribunale, le Bronsuoli dal Monastero di S. Matteo, ove poscia, le monache dissidenti rientrarono incontanente.

Sdegnato ed acceso il Pirelli, supponendo che l'uscita delle monache non fosse stata senza consulenti e senza operatori, con relazioni ai Ministeri, servendosi delle sue amicizie, condensò un turbine assai minaccievole, a danno di distinte persone, le quali, onde evitare la carcerazione, rimasero latitanti, o emigrarono per un tempo dal Regno. Nel corso delle informazioni prese dal Tribunale (per dir meglio dall'Assessore) due delle più ardenti monache vennero traslocate, una al monastero di Campli e l'altra a quello di Civitella.

 

Seminario aprutino. Portale

Seminario aprutino. Facciata laterale

 

Contro i provvedimenti giudiziari furono prodotti ricorsi che dettero luogo ad animate ed odiose lunghe discussioni. Per la saggezza del Re e dei suoi Ministri cessarono tali discettazioni e venne comandato che si imponesse alla causa perpetuo silenzio, e che le religiose rientrassero nel proprio monastero, mentre si ammettevano ad indulto gli imputati.

Il Campana, nelle sue notizie « Un periodo di Storia di Teramo », dà altri interessanti particolari dell'avvenimento : Egli racconta che in aiuto delle suore corsero Donna Cassandra Mazzocchi napolitana di casa Delfico, Don Melchiorre Delfico, Don Alessandro Tullj, con altri, facendo portare alle suore ribelle fuoco caffè cioccolato, ed esortandole a far ritorno al Monastero. Esse però ristettero finchè non giunse il Vescovo Pirelli ed il Ministro del Tribunale Don Giacinto Dragonetti di Aquila.

Dell'accaduto del fatto si fece relazione al Re ed al Papa e se ne diede la responsabilità alle cennate persone che tutte fuggirono. La Signora Mazzocchi riparò in Atri, (di notte, al lume delle fiaccole), dov'era Giamberardino Delfico, suo genero e Ministro di quello Stato; Don Melchiorre in Napoli si ritirò a S. Agostino della Zecca ove rimase per molto tempo nascosto: Donna Emmanuela Thaulero e la nipote Donna Raffaella, furono condotte, con le guardie, al Monastero di Campli.

Durante l'occupazione dei francesi, guidati dal Generale Rusca, entrate le truppe galliche a Teramo, l' 11 dicembre 1798, nel convento di S. Matteo vennero ricoverate le giovinette di agiate famiglie che nascondevano quanto avevano di prezioso e di ricco.

Nel convento di S. Matteo ripararono anche durante l'assedio del Generale Fregeville nel 1806 alcune religiose del convento di S. Chiara di Civitella del Tronto, uscite dalla fortezza per mettersi al sicuro.

 

Dopo il disastro del 1745, dinanzi narrato, il convento si andò sempre più assottigliando di religiose. In un libro delle oblazioni dei fratelli e sorelle iscritte al Sacro monte de' Cinturati per l'anno 1787, rinvenuto nella Chiesa di S. Agostino, vi troviamo citate soltanto diciassette sorelle, appartenenti alle monache di S. Matteo. Esse sono: D. Scolastica Tarantini, D. Maria Giuseppe Bernardi, D. Margarita Rubini, D. Maria Crucifissa Urbani, D. Maria Rosa Turchi, D. Geltrude De Cammillis, D. Benedetta Ercole, D. Angela Serafina Frigoli, D. Maria Emanuele Thaulero, D. Maria Maddalena Manoia, D. Maria Raffaele Cornacchia, D. Marianna Raiti, D. Eleonora De Iuliis, Suor Maria Scipioni, Suor Giovanna Conti, Suor Anna Scipioni, Suor Monica Di Giuseppe Di Giampaolo.

Occorre pertanto notare che talune delle predette sorelle non discendono da famiglie teramane, come si rileva dalla diligente raccolta del Savini.

Al principio dell'ottocento Gioacchino Napoleone, con decreto 7 agosto 1809, ordinò la soppressione degli ordini religiosi possidenti in tutto il Regno delle due Sicilie, e, poco dopo, con altro decreto del 28 novembre 1810, prescrisse la abolizione di quei monasteri che contenevano meno di 12 professe. E, poiché le benedettine di S. Matteo erano rimaste a sei, nel giugno del 1811 vennero trasferite nell'altro locale benedettino di S. Giovanni in Teramo. Il fabbricato del soppresso monastero fu incamerato dal demanio dello Stato, come bene patrimoniale.

 

Duomo di Teramo.
Parte del coro barocco

Vecchia chiesa delle Grazie.
Campanile barocco

 

Si chiude così dolorosamente la storia monastica di S. Matteo, che per molti anni, illustrò la vita teramana, operando nel bene, con vivo fervore.

Il Sindaco di Teramo, mediante ufficio del 10 luglio 1811, reclamò presso l'Intendente la proprietà comunale dell'Edificio, chiedendo di essere autorizzato ad istituire giudizio contro i Reali demani, onde lo stabile fosse restituito al Comune.

La questione non fu risoluta giudiziariamente, ma per semplice componimento amministrativo. Il locale fu rilasciato al Comune, il quale poi nel 1812 vi allogò (sappiamo con quanto danno per le opere d'arte) la compagnia dipartimentale, durante l'occupazione francese. Troviamo poi che nel 1817 il monastero venne posto in catasto in testa al Comune di Teramo. Altro pericolo la Chiesa di S. Matteo corse per i provvedimenti adottati dall'Intendente della Provincia, a seguito del decreto 7 agosto 1809, ossia per la soppressione delle chiese non mantenute dalle rispettive parrocchie o confraternite e non assolutamente necessarie all'esercizio del culto. A tale iattura vi ri mediò il decurionato di Teramo, con delibe razione 17 luglio 1811, a seguito di parere espresso dal Vescovo, e per cui S. Matteo, pur non essendo chiesa parrocchiale e non avendo una Confraternita, venne conservata al culto ed assegnata al parroco di S. Giorgio, Don Timoteo Wagnon.

Intanto, per il decreto 16 maggio 1816, in esecuzione delle disposizioni date da Giuseppe Napoleone, con decreto 30 maggio 1807, nei locali dell'ex convento di S. Matteo erano state trasferite le scuole secondarie di quell'epoca. Nel 1818 vi veniva aperto anche il Convitto, formandosi in tal modo il Reale Collegio, corrispondente all'odierno R. Liceo Convitto, che da poco ha lasciato i vecchi locali per trasferirsi al nuovo Palazzo scolastico, in Piazza Dante. Lo stabile dell' abolito monastero venne preso in consegna dal Real Collegio; ma il Patrimonio regolare, in Comune, con citazione del 1838, rinnovata seguito, istituiva giudizio contro il Collegio per la restituzione del Monastero di S. Matteo. L'istanza fu rigettata, e così fin dall'anno 1822 il Collegio tenne il legale e materiale possesso di quel fabbricato.

Con R. Decreto del 6 novembre 1849, il borbone Ferdinando II affidò il Real Collegio, dal l. gennaio 1850, ai PP. Barnabiti, i quali presero possesso il 28 dicembre 1849. Ai barnabiti vennero consegnati gli arredi sacri e tutto quanto era adibito all'uso della Chiesa di S. Matteo.

I Padri stessi ebbero la direzione del Collegio fino al 10 febbraio 1861, allorché quell'Istituto fu trasformato dal Governo Italiano in R. Liceo-Ginnasio.

 

Chiesa dei cappuccini. Altare scolpito
dal laico cappuccino Giovanni Palombieri

Chiesa di San Matteo.
Facciata
 

Il tempio di S. Matteo ha subito, attraverso i secoli, radicali trasformazioni, per cui compito assai difficile è precisarne ora le perdute forme architettoniche. La chiesa, in origine, dovette, come opiniamo, assumere il modesto aspetto degli edifici sacri minori teramani sorti nei secoli XIV e XV, con la facciata ed il portale semplici, nonchè munita di tetto in legno a cavalli, abside a forma comune, e campanile,   del quale si vedono tuttora gli avanzi nel pianterreno del Convitto.

L'interno di essa, composto di una o più navi, ed abbellito nelle pareti da pitture a fresco, alla maniera riscontrata in quasi tutti i luoghi pii della Città. A comprova di ciò giova accennare che ancor oggi, di sotto al bianco di calce della grande nave rimodernata, appaiono segni e tracce di colore, forse resti di cicli pittorici sovrapposti, di epoche da non potersi precisare.

Nessun avanzo visibile rimane attualmente della grande rinnovazione cinquecentesca avvenuta per opera munificente di quella nobile Signora Piacentina de’ Cappelletta, che trasformò il fabbricato da Ospedale in Monastero benedettine. Soltanto ci è noto il rimordernamento barocco eseguito dal 1707 al 1713, precedentemente ai lavori del Duomo nel periodo più fecondo dei Giosaffatti.

La nuova Chiesa, insieme con il suo capo-altare, venne poscia consacrata, con solenne rito, nel 1736 dal vescovo Tommaso Alessio de' Rossi. A memoria di tale avvenimento venne apposta, sotto 1' organo, a destra della porta principale, una leggiadra cartella foggiata nello stile dell'arte corrente e che ricorda lapidariamente l'avvenimento:

D. O. M.
S. MATTHAEO APOSTOLO
THOMAS ALEXIUS Epus Apnus
ECCLESIAM HANC ET ARAM
DIE XXII APRILIS MDCCXXXVI
SOLEMNI RITU
B. C. D.

Ai 25 novembre dello stesso anno fu dal medesimo Presule nardonese consacrata la Chiesa di S. Giovanni, decorata con lavori di stucco, distrutti nell' infelice restauro del tempio compiuto poco dopo la metà dell'ottocento.

Si hanno anche notizie della ricostruzione della torre, già arricchita nel 1686 di una campana grande

donata al tempio dal Preside della Provincia Pennelosa e devastata da un fulmine. Per questa ricostruzione il canonico Palma ci fa conoscere che, in assenza di Monsignor Mazzara, la nuova fabbrica venne benedetta dal Vicario gen. G. del Giudice, ai 19 settembre 1761. Il diligente cronista non tralascia anche di annotare l'ultimo restauro di S. Matteo esegaito dalla Città nei lavori degli anni 1831 e 1832, in occasione della riapertura della Chiesa al Culto. Il tempio fu solennemente di nuovo enceniato da Monsignor Vescovo Berrettini, nel dì 9 dicembre 1832.

 

Chiesa  di San Matteo
Portale
Chiesa di San Matteo
Abside ed altare maggiore
 

È, certo, d'attribuirsi a buona sorte se il fabbricato, pur attraverso le dannose smanie d'abbellimenti del secolo XIX, nulla abbia perduto della sua forma giosafattiana del rimodernamento barocco. La facciata richiama la corrente dei gesuiti dell'epoca. É composta di un piano interrotto da due grandi lesene, con mostre laterali, e bipartita da una robusta cornice. Nella parte superiore si apre una finestra rettangolare con timpano a triangolo mentre un grande arco a sesto ribassato, ed un occhio circolare nel mezzo, formano il coronamento del fronte, assai semplice.

Due timidi pilastrini si alzano lateralmente negli angoli, sulla cima del tetto, ed un campaniletto, nascosto nell'alto, getta sul cielo pie voci di bronzo. Ma la parte più nobile del prospetto è rappresentata dal portale di travertino, eseguito dagli artisti ascolani Giosafatti.

Il disegno presenta chiare analogie con le più belle opere del genere lasciate dagli stessi artefici nelle Marche, particolarmente ad Ascoli. Ordinata ed armonica (ritmo berniniano), semplice e severa la porta è sormontata da un ricco frontone composto di linee rette, compendiate dalla grande curva movimentata del timpano. Nelle caratteristiche dello stile appare la tendenza al classico, improntato alle severe forme barocche della prima metà del seicento.

 

Chiesa di San Matteo.
Soffitto dipinto
Chiesa di San Matteo.
Particolare del soffitto
 

Sobrie opere di plastica ingentiliscono l'insieme del lavoro. Esse, nella parte più essenziale, comprendono: due fantasiose maschere adornanti i capitelli (girati al modo ionico) e cariche di un bel gruppo di frutta che scende lungo gli stipiti, come un fresco dono di Pomona nella frugifera terra d'Abruzzo; due angioletti alati poggianti sul fregio del frontone, in atto di guardarsi, bisbigliando soavi accenti. Essi sono uniti da una tortuosa fascia svolazzante, sulla quale si legge il motto ripetuto nella regola della Compagnia di Gesù «Ad maiorem Dei gloriam». La pietra dei putti, bevendo la luce, ha mutato il suo freddo aspetto in una calda trasparenza d'oro, avvivante, con dolcezza tenue, le linee delicate delle testine, che diffondono, nel loro colloquio angelico, un sentimento di purità infantile, delicato e nobile. Sullo stesso fregio ove sono poggiati gli angeli, vi è inciso, in bei caratteri, un muliebre nome luminoso

DONNA MARIA ANTONIA NICOLINI.

La munifica signora, forse badessa del convento, ignota alle cronache teramane, e sconosciuta dal Ravizza tra i Nicolini di Chieti, vive, nella serenità del silenzio claustrale, con il solo ricordo inciso gloriosamente sulla pietra inanimata, e nulla solleva il velo del mistero. Vissuta nella prima metà del settecento, sembra discendente della nobile famiglia fermana dei Niccolini, poichè antiche relazioni hanno tenuto attraverso le epoche, in continuo contatto i conventi benedettini di Teramo e di Fermo, mentre, nei secoli XVII e XVIII, la genealogia del casato in parola si fregia di preclari figure ascetiche.

Uno stemma, scolpito nella maniera dell' epoca, completa la decorazione del portale, sotto la chiave dell'arco. Ivi sono raffigurati nel basso tre monti, con una mano alzata in quello di mezzo; ed in alto tre stelline.

Nella figurazione araldica non manca qualche elemento comune agli stemmi dei summentovati nobili fermani e della Congregazione cassinese. E anche probabile che l'arma gentilizia possa appartenere alla famiglia de' Cappelletta, e ricollocata sul portale dei Giosafatti, a ricordo della fondatrice del Monastero.

 
Chiesa di San Matteo:
Quadro del secolo XVII
Chiesa di San Matteo.
Quadro del secolo XVIII
 

Ma lasciamo nella sua pace eternale l'ombra della badessa ed entriamo nel tempio per ammirare le feste del barocco.

La bianca vasta navata interna si sviluppa con le sue linee fondamentali nella maniera che molto si accosta al giosafattiano demolito Duomo barocco.

Sobrie decorazioni a stucco abbelliscono, con fare piuttosto classico, le pareti scompartite da lesene e sormontate da leggiadri capitelli compositi, vivi d'acanto.

Maggior sforzo decorativo presenta il vasto soffitto costruito a botte, con sesto ellittico lunettato. Esso è scompartito (la otto riquadri: quattro più grandi, nella parte centrale, separati da medaglioni; e sei cartelle, negli spicchi laterali, contornate da rami frondosi. Lo spazio vuoto è ricoperto da una fantasiosa fioritura sostenuta da leggiadri putti, per ove pare muovere un fresco alito primaverile.

Il capo-altare, in fondo alla navata, completa, maestoso, la parte decorativa. Esso s'innalza sveltamente, sostenuto da una coppia di colonne ed arricchito da un pesante frontone, decorato con angeli e leggiadre cartelle; mentre al disopra del quadro principale, che occupa tutta la parte centrale della costruzione, trovasi il consueto sopra quadro, ov'è ritratto l'Eterno.

Sui fianchi dell'altare maggiore si alzano due statue che raffigurano: una S. Cosimo e l'altra S. Damiano, modellate con buon disegno e larga fattura espressiva. Una bianca grata leggera nasconde, in alto, sulla parete destra dell'abside un coretto di preghiere, per ove langue ancora, tra l'incenso, un sogno di passate mistiche ansie monacali.

Sul parapetto dell'organo un grande stemma di Teramo esprime il diritto di patronato della Città. A riscaldare la monotonia del bianco abbacinante degli stucchi, e pur nell'assenza delle dorature e delle imitazioni di marmi colorati, i buoni artefici ideatori del rimodernamento settecentesco, non obliarono il colore vivificatore.

 

Chiesa di San Matteo.
Quadro di scuola napoletana

 

La volta è tutta dipinta a fresco da un maestro non disprezzabile, che ha lasciato il proprio nome nel centro dell'arco di trionfo. Ivi si legge:

Anno Domini Millesettecentotredici

G. B. Gamba Pingebat,

con un curioso intreccio nelle prime lettere.

Giovambattista Gamba viene dagli studiosi ritenuto abruzzese, essendochè molte sue opere, particolarmente le pitture a fresco ed a guazzo, s'incontrano sparse in più luoghi dell'Abruzzo, ove l'artista, certamente, esplicò la sua maggiore attività. Gli affreschi della Chiesa dell'Annunziata di Sulmona, furono fatti verso il 1728 ed hanno il digamma G. B. Gamba, come in quelle di S. Matteo. L'affresco sulla cupola della cappella del Sacramento nella Chiesa Maggiore di Pescocostanzo ha una gamba firmata, e vi si rappresenta una gloria, cioè: la Trinità con angeli, la Madonna, S. Giuseppe, S. Giovan Battista, S. Benedetto, S. Felice Martire, patriarchi, profeti, apostoli, confessori e vergini. Anche in Pescocostanzo, e precisamente nella chiesa che fu dei Riformati, c'è un quadro di S. Anna con l'iscrizione Gio. Batta. Gamba ed un affresco pur del Gamba che rappresenta S. Antonio.

Si trovano pitture del Gamba ha altresì nella chiesa della Trinità in Popoli, in quella dei Zoccolanti a Scanno, nella chiesa matrice di Bugnara, etc.

Nella Chiesa di Santa Chiara in Penne è pure opera del Gamba il bellissimo dipinto della nascita del Bambino. Ancora in Penne la chiesa di S. Giovanni gerosolimitana vanta un S. Francesco di Paola ed un S. Carlo dello stesso Gamba, mentre in casa del Barone Castiglione, si conserva del Gamba una tela, il Sogno di Giacobbe.

Si hanno inoltre notizie di un Crescenzo Gamba, figlio o parente di Giovambattista, e del quale presenta la stessa maniera di dipingere. Nella Chiesa del Carmine di Vasto esiste un quadro della Presentazione al Tempio, dov' è scritto Crescentius Gamba P. A. D. l767.

Si conosce anche un Paolo Gamba, nato il 30 ottobre 1713, in Ripabottone.

 

Chiesa di San Matteo.
Quadro del pittore teramano Gennaro Della Monica

Chiesa di San Matteo.
Pulpito in legno noce

 

La vasta figurazione pittorica del soffitto, assai guastata, per l'infiltrazione di acqua dal tetto, non difetta di slancio, invenzione e prospettiva. Buone qualità si ravvisano anche nel disegno e nei rapporti tonali delle tinte. Nei quadri maggiori, ed ancora intatti, sono rappresentate le glorie di S. Benedetto e di S. Scolastica, con santi dell'ordine e cherubi svolazzanti fra le nubi. A S. Benedetto fanno corona due santi benedettini, del più antico tempo; mentre S. Scolastica è accompagnata da S. Chiara, col giglio, e da S. Cecilia che sta traendo dall'organo mistici chiari concenti, per rallegrare la scena.

Nelle cartelle laterali sono raffigurati S. Anna, Santa Colomba, S. Luigi Gonzaga o Giovanni Berchmans, gesuiti, ed altre figure in gran parte danneggiate dalla caduta dell'intonaco della volta. Nei medaglioni che separano gli scomparti principali sono ritratti la Colomba mistica ed il Redentore; così nella volta dell'altare maggiore risplende la gloria del Sacramento, circonfuso da variopinte nubi e da uno stuolo svolazzante di cherubi. Altri angeli volano fra gli spazi vuoti degli scomparti e delle cartelle laterali.

Ora, rimane soltanto fare qualche cenno della suppellettile d'arte che attualmente la chiesa conserva, salvata dalle prede e dalle dispersioni del passato.

Nel tempio, già molto ricco di opere, si possono ancora osservare: una tela sull'altare maggiore rappresentante, in alto, la Vergine, seduta sopra nubi giallognole e con il Bambino Gesù in grembo. Essa mostra il figlio a S. Benedetto ed a S. Scolastica che la circondano, in atto di adorazione, mentre S. Matteo, con l'angelo reggente il Vangelo, indica l'apparizione all'osservatore. Composizione offuscata da tinte fumose, per quanto robuste nelle figure di complemento. Un po' deboli e morte le tinte rose ed azzurre sul manto della Madonna. Il lavoro può attribuirsi ad un maestro manierista provinciale abruzzese e può farsi risalire al secolo XVII, con elementi romani e napoletani, e non lontano dalla scuola dell'aquilano Cesura, Pompeo dell'Aquila; un'altra tela, situata nel primo altare a destra dell'entrata, di maggiore effetto scenografico raffigurante una fosca crocifissione. Ai piedi di Gesù, livido di tinte, sono l'Evangelista Giovanni o Giuseppe d'Arimatea in un vasto manto svolazzante, e le due Marie, una delle quali (bionda figura paesana vestita nella foggia del tempo) abbraccia la croce, inginocchiata. Il disegno, particolarmente nelle figure di complemento e nei dettagli del corpo risulta eseguito con assai grazia. Belle anche le intonazioni delle tinte chiare. Il quadro è anche opera di un manierista provinciale abruzzese del secolo XVIII, un ecclettico sotto l'influsso della scuola napoletana. Sul cartiglio della croce si legge la comune indicazione : Jesus Nazarenus Iudaeorum.

Una terza tela situata nel secondo altare, ancora a destra dell'entrata, riproduce la consueta scena del Rosario, ed è opera pregevole del pittore teramano Gennaro della Monica ;

Altro dipinto di scuola partenopea si conserva nella chiesa, un'adorazione della Vergine, però alquanto debole di disegno e di colore.

Sono da ricordare ancora un piatto di bronzo, da questua, opera locale del secolo XVI, con motti in lingua teutonica, ad imitazione di quelle delle fratellanze tedesce del secolo precedente, illustrato dal Savini (Bollettino d'arte del Ministero della Pubblica Istruzione, marzo 1929); un pulpito ligneo che ricorda tardamente la scuola del citato Palombieri, laico cappuccino. Il lavoro, ordinato dai PP. Barnabiti (come si rileva dall'emblema della compagnia scolpito sulla parte frontale dell'opera) è decorato da buone opere d'intaglio.

 

Chiesa di San Matteo.
Piatto in bronzo del secolo XVI

 

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