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Luigi Savorini

Panorama di Teramo

in "Teramo. Bollettino mensile del Comune di Teramo",
anno IV (1935), n. 5-6, maggio-giugno; e anche per estratto.

 

Teramo, la città più settentrionale degli Abruzzi, il capoluogo di provincia il quale una volta era il più settentrionale anche per tutto il Regno di Napoli, fu per il passato, come è pure al presente, un centro evoluto, all'avanguardia del movimento intellettuale e politico della regione. Capitale del primo Abruzzo Ulteriore, per la sua posizione al confine dell'antico reame, ebbe per tutto il medio evo e l' età moderna una vita assai agitata. Soltanto dopo il 1860, con l' unità d'Italia, cessò il travaglio che l' aveva immiserita attraverso i secoli e da allora, con lento ma costante progresso, potè attendere al suo incremento edilizio, potè risorgere a nuova vita civile e intellettuale.

Oggi Teramo è una città non grande, è vero, ma graziosa e vivace, notevole per fervore di intellettualità, per sentimento patriottico, per slanci spirituali. Nell'aspetto, con le sue vie spaziose e regolari, con le sue case intonacate e tinteggiate a chiari colori, è prevalentemente moderna. Senz'ombra alcuna di quella tetraggine che finiscono per dare le pàtine dell'antichità, pur essendo interessante per avanzi archeologici e per chiese e palazzi medioevali, è illegiadrita dalle zone di verde delle quali può beneficiarsi, pei giardini che s'aprono nell'interno tra un caseggiato e l' altro e per gli orti e i parchi che all'esterno le fanno corona.

Una città gaia, dunque, anche per l'amabilità dei suoi abitanti. Una città che è giovine ed antica. Una città che ha saputo mantenersi all'altezza cui pervenne alla fine del secolo XVIII; allorchè per la sapienza di alcuni suoi figli nobilissimi meritò il titolo di Atene degli Abruzzi.

Gli edifici che si allineano lungo le vie; principali, nonostante che siano stati rifatti o costruiti dalle fondamenta in epoche recenti, non hanno tutti l'imponenza che si desidererebbe in un capoluogo di provincia. Le piazze, che pure sono ampie, e ben disegnate, non sono ancora ornate (ma è da discutersi se questo sia proprio un difetto) dei monumenti marmorei, delle artistiche fontane che abbelliscono altre città. 1 Teramani non sono stati mai affetti da monumentomania.

Tale semplicità è dipesa dall'assenza di una tradizione edilizia, dalla mancanza di una buona pietra da costruzione e dal fatto che la città moderna si andò rabberciando per il passato su quella medioevale, che, specie negli edifici privati, era di una modestia confinante con l'umiltà. D'altra parte lo sforzo che Teramo ha fatto sinora nel campo urbanistico è consistito principalmente nell'aprir nuove vie e negli abbattimenti necessari ad uscire dalla angustia e dall'asserragliamento medioevali, per un più ampio respiro, per un più libero svolgimento dell'attività civile e commerciale. In questo faticoso progredimento è stata favorita dalla sua planimetria, che è quasi perfetta, anzi a dirittura singolare per una città d'altopiano, con pochi e insensibili dislivelli, con grande agevolezza nel passare da un quartiere all'altro, lungo vie che si sviluppano come tanti rettifili e sono ampie e belle e lo saranno maggiormente quando verranno in qualche punto rettificate e più curate.

Tutta chiusa un tempo come un'isola fra le rive dei suoi fiumi, colmò al principio del secolo passato i fossati che a valle e a monte intercorrevano per ragioni di difesa tra l' una e l'altra fiumara e spaziò con i sobborghi verso la montagna e la marina. Si accinge ora ad oltrepassare almeno uno dei greti che la fiancheggiano per allineare, al di là del Vezzola, lungo la Via Abula, gli edifici dei futuri quartieri.

Una città interna, è vero, un po'tagliata fuori dalle maggiori correnti del traffico e della viabilità. Ma dista soltanto 25 chilometri dal litorale adriatico, cui la congiungono una bellissima strada asfaltata e una ferrovia. Rapidi servizi automobilistici la mettono in diretta comunicazione con i paesi situati alla periferia della provincia, verso Ascoli, verso Aquila, verso Pescara. E soltanto 35 chilometri, per una strada agevolissima e ben tenuta, la separano da Ascoli, o per, meglio dire la congiungono a quel Piceno di cui sin dall'epoca di Augusto fece parte per tutta l'età imperiale e il più alto medioevo.

Scalo della parte più eccelsa ed importante della catena appenninica, ha strade che la portano in poche ore alle falde dei Monti della Laga e a quelle del Gran Sasso d'Italia, lungo le valli che sfociano al pianoro su cui é situata. E così tra la montagna e il mare, in un punto di passaggio obbligatorio, in un vero è proprio nodo stradale, raccoglie i fili che le provengono dai gangli minori: Isola, Montorio, Civitella, Giulianova, per cui anche oggi, come al tempo dei Romani, è il conciliabulum, ossia l'emporio dell'agro pretuziano e deve la sua esistenza e il suo progresso ad una corrente umana indeviabile che la natura stessa ha stabilita per le vallate che scendono dalla montagna al mare. E non tarderà a divenire anche un centro turistico, quando saranno meglio valorizzate le strade che conducono al Gran Sasso d'Italia (m.2914), quando sarà meglio conosciuta la recentissima via che dalla parte della Laga porta in meno di un'ora d'auto all'ingresso del Bosco Martese, cioè ad un parco naturale incantevole, ad un immenso belvedere che si trova all'altezza di oltre mille e quattrocento metri.

 

Sorge tuttora la Città di Teramo nel luogo stesso ove la fondarono i suoi prischi abitatori, a 265 metri sul livello del mare, su di un pianoro triangolare leggermente inclinato da occidente ad oriente, alla confluenza di due ampie fiumare: la Vezzola (Albulates) e il Tordino (Batinus). Vista dall'alto delle colline circostanti si presenta nella forma dello strapizze che è, com'è noto, un indumento femminile triangolare caratteristico della regione. Gode del clima temperato, sano e costante delle zone collinose e gradevole vi è il soggiorno nella stagione autunnale e nella primaverile. Tuttora divisa nei suoi antichi quartieri (San Giorgio, Porta Romana, Santa Maria a Bitetto, Santo Stefano), coronata dai sobborghi principali (Castello, Madonna della Cona, Stazione) si estende maggiormente in lunghezza ed è attraversata da oriente ad occidente, dalla Porta Reale alla Porta San Giorgio, da un'ampia via lunga oltre un chilometro, il Corso, che si svolge in una linea leggermente spezzata in tre parti: Corso già di Porta Reale, oggi Carlo de Michetti (per cui si entra venendo dalla marina e dalla stazione), Corso del Trivio, Corso San Giorgio. Quest'ultimo, che è davvero un maestoso rettilineo, si trova nella così detta terranova, ossia nella parte moderna della Città, ed è la via più aristocratica e frequentata, dove si svolgono i fioriti passeggi domenicali.

All'un capo e l' altro del Corso si aprono come due ameni verzieri il Giardino di Porta Madonna e la Villa Municipale. Quest'ultima, aperta al pubblico nel 1884, anno in cui si inaugurò la ferrovia Teramo-Giulianova, ricorda nel disegnò, e s'intende in ridotte proporzioni, i "Giardini Margherita", di Bologna.

Nella prima parte, ossia nel Corso di Porta Reale sino alla piazza inferiore ove si erge la facciata della Cattedrale, la linea della principale via teramana corrisponde al cardo della Città romana, che era detta Interamnia Praetuttianorum, perchè inter amnes, tra due fiumi. Ma tal nome, che evidentemente è di conio letterario o per lo meno d'epoca alquanto evoluta, presuppone una denominazione più antica che gli storici locali ravvisarono in Pretut, mutato poi latinamente in Praetutium, per tutto il territorio. Interamnia, Interamnes, Teramnes, Interamnium, Teramnium, Teramum sono le trasformazioni onomastiche che ci portano al nome attuale di Teramo.

Ma quando, nell'alto , medioevo, l' antica città romana fu distrutta e sulle sue rovine sorse il castrum, ossia il posto trincerato contro i Barbari, fu detto Castrum Aprutiense od anche soltanto Aprutium. Ed in seguito, per tale vicenda onomastica, toccò e Teramo, dopo la costituzione del regno normanno, l'onore di dare il nome a tutto l'Abruzzo, che così si chiamò da Aprutium, ossia dal nome medioevale (Comitatus Aprutii, contea d'Apruzzo) del territorio pretuziano. Denominazione divenuta poi ufficiale e definitiva allorchè Federico I creò con le tre attuali provincie di Teramo, Aquila e Chieti il Justitiaratus Aprutii.

 

L'impronta romana di questa vetusta Città, oltre che nei resti archeologici, è evidente in alcuni usi e costumi, evidentissima nella onomastica tanto topografica che famigliare e nel dialetto, che appartiene al più puro ceppo italico, con molte tracce di latinità nel lessico e nei costrutti grammaticali. Nell'uso però il derivato è teramano dal medioevale interamnianus e non teramese, dal classico interamnensis, come si è trovato in alcuni scrittori che non avevano mai visitata la città. E quanto alla parola Pretuzio anch'essa si corruppe in Apruzio, donde l'aggettivo aprutino in luogo di pretuziano (Loreto Aprutino, diocesi aprutina). Per aver fatto parte in fine del Regno di Napoli, è invalsa l'idea che Teramo sia nell'Italia meridionale. I Teramani sono ben lungi dal disdegnare d'essere accomunati alle nobilissime popolazioni del mezzogiorno. Ma per la verità storica e geografica è necessario affermare che Teramo con tutti gli Abruzzi si trova nell'Italia Centrale.

La posizione astronomica della Città (gradi 42,40 di latitudine e 1,14 di longitudine) la rende più settentrionale di Roma. Ed è nella zona del Gran Sasso, il monte che ripercosse per la prima volta l'eco del nome Italia al tempo della guerra sociale, che si trova indubbiamente quell'umbilicus Italiae notato da Varrone e da Plinio.

 

Il passato della Città di Teramo non presenta avvenimenti di tale importanza da essere annoverati nella storia generale d'Italia. Quella teramana è una storia di riflesso, una sequela di ripercussioni degli esterni rivolgimenti e delle vicende quasi sempre infauste dei governi da cui dipese. Tale caratteristica è dovuta alla sua qualità di città di confine, alla ristrettezza del suo territorio in certo qual modo solitario ed 'appartato.

Tuttavia in tutta la sua storia si nota una indomita fierezza tuttora testimoniata dalle scritte e dai motti sugli architravi e sugli stemmi, una irreducibile insofferenza d'ogni tirannide, un anelito continuo alla libertà. Popolo buono e generoso, ma tremendo nelle sue ire e nelle sue rivolte, il teramano più volte adeguò al suolo le rocche de'suoi tiranni. Per fino nelle sue tradizioni religiose si manifesta questo sentimento di indipendenza. Il maggiore miracolo del patrono San Berardo è la liberazione della Città dalle milizie del Duca d'Atri Andrea Matteo Acquaviva (1521), miracolo rappresentato in una grande tela dal celebre pittore teramano Giuseppe Bonolis (1800-1851) che ne fece dono alla città natale. E così in ogni epoca la Città riuscì a far sentire il suo peso e il suo valore e a nessuno dei domini e dei regimi che più o meno a lungo la detennero potè sfuggirne la importanza.

Dall'antica città italica, dal conciliabulum dei Pretuziani, come la chiamò lo storico Frontino, uscirono nelle primavere sacre i giovani a popolar le vicine contrade. Alla gola del Salinello la tradizione addita ancora la Maceria della Morte ove la gioventù d'Interamnia, risalendo per la Metella, combattè strenuamente contro Annibale all'ombra del bosco che fu detto Martese. Per cui ben disse Silio Italico: Praetutia pubes . Laeta laboris, la gioventù pretuziana lieta di sostenere ogni più dura fatica. Forse per queste benemerenze acquistatesi in guerra contro i nemici comuni, Interamnia s'ebbe da Roma un eccezionale trattamento. Cosa molto rara, a detta del Mommsen, fu ad un tempo municipio e colonia. Nell'epoca imperiale e; specialmente sotto Augusto (da una epigrafe risulta che vi era in Teramo un tabularius Augusti, ossia un soprintendente al patrimonio privato dell'imperatore) e in proseguo sotto l' imperatore Adriano, oriundo della vicina Atri, raggiunse il massimo splendore, ed ebbe templi, terme, circo, teatro.

 

Seguendo poi le sorti dell'Impero Romano, durante le invasioni barbariche, fu distrutta una prima volta dai Goti di Alarico nel 410, occupata poscia dai Longobardi che l' aggregarono alla Contea di Spoleto, messa in fine a sacco e a fuoco, anzi a dirittura rasa al suolo, nel 1153 dai Normanni, contro la cui invasione invano l' antica fierezza pretuziana si era opposta in un ultimo anelito d'indipendenza e di libertà.

Risorta dalle rovine per opera del vescovo Guido II, divenne un feudo vescovile ed è questa la ragione per cui tutt'ora il vescovo della diocesi aprutina ha il titolo di Principe di Teramo, è questa pure la ragione per cui la facciata della cattedrale è terminata, come una fortezza, da una fila di merli guelfi e sino a qualche secolo fa i presuli aprutini si valevano ancora del raro privilegio di dire la messa armata tenendo sotto la stola l'armatura.

Dilaniata in seguito dalle fazioni (gli Spennati e i Mazzaclocchi, gli Antonellisti. e i Melatinisti) dovette lottare più volte per la propria libertà, specialmente contro i conti Acquaviva d'Aragona che muovevano dal vicino Castel San Flaviano, oggi Giulianova. Cessati i torbidi del Regno, potè seguirne le sorti in relativa tranquillità, internamente amministrata dal patriziato dei Quarantotto, ossia dalle XLVIII famiglie patrizie, delle quali oggi pochissime sono superstiti. Ma le interne discordie mai cessate, il banditismo (nel seicento anche qualche patrizio si buttava alla campagna per capitanarvi delle masnade), le carestie, le pestilenze (in una antica famiglia teramana si conserva tuttora sotto vetro il piccolo pane del 1817) e dopo la venuta dei Francesi il brigantaggio politico, rinnovatosi poi nel 1860, per opera degli spodestati Borboni, fecero della Città di Teramo, sino agli albori del nuovo regno, un teatro di vicende sanguinose, un tormento, un martirio continuato. Da tale miseria la liberò alfine l'unità d'Italia, cui col braccio e con la mente avevan contribuito dal 1799 in poi i suoi figli migliori, facendo di Teramo e della sua provincia il nido della Carboneria, la roccaforte del patriottismo abruzzese.

 

Una storia priva di grandi avvenimenti, dunque. Eppure poche città d'Italia hanno una storiografia così abbondante e tanto diligente ed accurata come Teramo. Le sue interne costituzioni, le sue vicende furono studiate, narrate, passate al filo della più oculata critica storica da vari scrittori e principalmente da Muzio Muzii (1535-1602), da Nicola Palma (1777-1840) e dal venerando Francesco Savini tuttora acuto, vigile, sapiente scrutatore d'ogni epoca storica della sua Città. Muzio Muzii, di cui ricorre quest'anno il quarto centenario della nascita é il padre degli storiografi teramani. La sua storia di Teramo in forma di dialoghi é mirabile per potenza di ricostruzione e acutezza di intuizioni.

Una storia attraverso la quale si delineano sorti pur troppo non sempre favorevoli, spesso a dirittura avverse. Ineluttabili fatalità determinarono a volte il rialzo, a volte l' abbassamento della Città. Era risorta dalle sue ceneri come l' araba Fenice, ed aveva dalla sua tanti secoli di vita produttrice, quand'ecco che nel medio evo, presso le rovine di Amiterno, si forma la potenza di Aquila che per la sua fortunata posizione rispetto a Napoli, quasi baluardo contro lo Stato Pontificio dalla parte dell'Umbria, diventa la « Chiave del Regno ». Era stata all'avanguardia del risorgimento politico, agricolo, economico della regione, aveva agevolato il passaggio del Tronto a Vittorio Emanuele II, aveva dato il primo Ministro dei Lavori Pubblici al nuovo regno col senatore Giuseppe Devincenzi, quand'ecco che dopo il 1880 l' apertura della strada ferrata Pescara-Roma determina l' incremento di alcune borgate litoranee e la formazione di un nuovo grande centro industriale, ora anche politico ed amministrativo, alla foce dell'Aterno. E il decreto del 2 gennaio 1927 le impone di sacrificare a questo nuovo centro metà della sua storica provincia.

 

Per non perire la città deve raccogliere le sue forze, ricreare le proprie fortune, rinascere. E il popolo teramano, un pò noncurante a dire il vero ed oblioso del suo passato, come un Aligi ridestatosi dal sonno secolare, guarda trasognato all'avvenire. Non invidia le altrui nuove fortune che esso stesso ha contribuito a creare. Sa che le circoscrizioni amministrative hanno un valore relativo. Sa che i destini delle piccole patrie sono mutevoli e che soltanto quello della grande Patria dev'essere costante, ed immortale. Per questo destino s'adopera e lavora tacitamente, entro la cerchia delle vecchie mura, e fuori, con rinnovata lena, con fede immutata, infaticabilmente, mentre per suo conto avanza nella civiltà con sicuro passo e con quella discrezione che è propria delle lunghe esperienze e della vetusta, autentica nobiltà.

Secondo il censimento del 1931 nell'interno della Città si contano 16.000 abitanti, compresi i sobborghi del Castello, della Cona, della Stazione. In tutto il Comune la popolazione residente è di 31.790 abitanti e la presente è di 30.667. Popolazione in continuo aumento pel numero delle culle il quale supera quello delle bare. Si rivelano in questa progressione e in questa ascendenza i sani istinti della razza, le basi salde della famiglia e della società teramana. Moltissimi Teramani inoltre sono sparsi un pò dapertutto in Italia ed anche all'estero ed ovunque si distinguono per ingegno, per operosità, per sobrietà, ovunque lasciano buoni ricordi del loro passaggio o del loro soggiorno. D'indole mite, di costumi semplici e modesti, cordiali, ospitali fanno buon viso ai fratelli degli altri luoghi d'Italia i quali a causa d'impiego o per altre ragioni prendono dimora nella loro Città. E sovente costoro vi acquistano nuova cittadinanza, tanto hanno da lodarsi dell'accoglienza ricevuta. Teramo ricorda con grato animo non pochi di questi cittadini di adozione cooperanti con zelo e con entusiasmo al suo progresso intellettuale e civile.

Portati da felici disposizioni a primeggiare nelle arti, nelle lettere, nelle scienze, nelle armi i Teramani congiungono al valore una rara modestia e sono schivi della pubblicità e del reclamismo. Frequenti gli esempi di uomini insigni il cui valore è stato riconosciuto, per non dire scoperto, dopo la loro morte. Doti queste che si riscontrano in tutte le classi della cittadinanza e perciò sono davvero i Teramani i taciturni dalle spalle quadre, i silenziari tanto desiderati dal Duce, amanti del lavoro, paghi delle intime soddisfazioni derivanti dalle loro onorate fatiche. Ma le più singolari virtù e caratteristiche si rivelano nel popolo, del cui spirito arguto, misto di sentimentalità, di lepidezza e di fine ironia, si rese felice interprete in questi ultimi tempi il poeta dialettale Luigi Brigiotti (1859‑1933).

 

Mezza giornata, avvertono le guide frettolose, bastano alla visita della Città. Eppure quanti hanno sentito il bisogno di indugiarvisi oltre il limite consigliato! Non ha grande dovizia di edifici monumentali la vecchia Teramo. Si riducono a tre o quattro i più importanti. Ma vi sono qua e là particolari che s'offrono improvvisi, insospettati all'occhio del riguardante. Sotto il punto di vista archeologico ed artistico Teramo é una città che si lascia scoprire a poco a poco, o meglio una Città che bisogna saper scoprire.

La mezza giornata basterebbe appena per gli avanzi àrcheologici (teatro romano, lapidario nell'atrio del palazzo municipale, museo archeologico, torre bruciata, mosaici nella Casa Savini). Tuttavia al viaggiatore basterà mostrare gli avanzi del Teatro Romano. Sotto quelle arcate così ben conservate ed oggi in buona parte liberate dai secolari interramenti egli crederà di trovarsi in cospetto di un monumento dell'antica Roma. Un così cospicuo resto di romanità poche città possono vantarlo. Teramo già medita di valorizzare questo insigne monumento della sua passata grandezza e di rimetterlo in piena luce, liberandolo dei caseggiati che vi furono sovrapposti.

Maggior tempo richiederà la visita agli edifici medioevali: Madonna delle Grazie, Casa dei Melatini; Sancta Maria Aprutiensis, San Francesco, il Duomo, Sant'Agostino, San Domenico, i Cappuccini. E molti sarebbero di più i monumenti del medio evo se l'ala del tempo e la mano dell'uomo non li avesse distrutti. Nei tumultuari riassestamenti della Città, sino alla metà del secolo passato, in cui non si aveva alcun rispetto e nessuna comprensione dell'arte antica, il piccone demolitore infierì implacabilmente contro i vecchi edifici, abbatté le porte per le quali si entrava in Città, diroccò le torri gentilizie, spezzò gli stemmi, asportò sinanco le artistiche pietre tombali dalle chiese, distrusse i pomerii, agguagliò al suolo il doppio giro di mura e i bastioni dei quali l' ultimo misero avanzo, poco discosto dalla Porta Reale, resta ancora a testimoniare malinconicamente una bellezza per sempre scomparsa.

 

Sino a poco tempo fa bastava guardare l'interno del Duomo, prima dell'attuale ripristino, per farsi una idea del nessun rispetto avuto per l'arte antica anche nel maggior tempio della Città dove ogni epoca aveva voluto rimaneggiare e raffazzonare l'interno a suo modo e lasciare la sua impronta più o meno banale. Ed oggi anche la facciata, dove si ammira l' elegante portale romanico decorato di mosaici, risente di innumeri manomissioni. Il bellissimo lavoro cosmatesco di Deodato Romano (Magister Deodatus de Urbe fecit hoc opus) portante la data del 1332 campeggia su di uno sfondo sconvolto, tormentato, raffazzonato.

Ma per fortuna da qualche decennio anche nel popolo teramano si é formata una coscienza storico artistica. Sull'esempio del benemerito storico ed archeologo Francesco Savini, che ha speso anche del suo per abbellire o restaurare alcuni monumenti (Madonna delle Grazie, San Francesco, Casa dei Melatino, Sancta Maria Aprutiensis, San Domenico) si può dire che si é arrivati oggi ad una gara di sollecitudine e di buoni intenzioni rispetto ai monumenti. Si sono avuti esempi anche di privati che hanno sostenuto non lievi sacrifici per ripristinare, almeno all'esterno, le case antiche (Casa Corradi, oggi Capuani). Il gusto romantico per l' arte medioevale spinse un geniale e bizzarro pittore, Gennaro Della Monica (1837‑1917), a creare il grazioso castello che si ammira dal piazzale di S. Giorgio. E la nuova coscienza artistica consigliò l'Associazione dei Mutilati a dar vago aspetto quattrocentesco al rifacimento della Chiesa della Misericordia e l'Intendenza di Finanza a rinnovar la facciata della sua sede, già convento dei Francescani, nello stile degli edifici medioevali viciniori.

Ma la prova maggiore di questa rinnovata coscienza è il miracolo prodottosi in pochi anni col restauro dell'interno del Duomo, opera voluta e predisposta da ben tre vescovi succedutisi nella cattedra episcopale aprutina : monsignori Alessandro Zanecchia, Settimio Quadraroli e Antonio Micozzi. A questo ultimo spetterà il vanto e l' onore di presentare ai molti ospiti, che converranno in Teramo d'ogni parte d'Italia pel prossimo Congresso Eucaristico Nazionale, il ripristino di uno dei templi più caratteristici della regione abruzzese. Spetterà questo onore ad un vescovo romano, così come nel trecento spettò ad un vescovo anch'esso romano di nascita, Nicolò degli Arcioni, il merito di aver abbellita e nobilitata la facciata orientale. E pel settembre prossimo, epoca fissata pel Congresso suddetto, si troverà iniziata un'altra grande opera tanto reclamata per improrogabili necessità di estetica e di transito: l'isolamento del Duomo e lo scoprimento sino alle basi del bellissimo campanile con l'abbattimento delle casupole, che, a scopo di lucro, sin dal secolo decimoquarto vi si erano l' una dopo l' altra addossate. Il primo colpo di piccone sarà dato quanto prima e pel tanto atteso avvenimento il campanone del Duomo chiamerà il popolo a raccolta sulla piazza.

E si troverà restaurato anche il vetusto artistico campanile (m. 44,75), prototipo di tutti i campanili della provincia, passione ed orgoglio dei Teramani anelanti di vederlo isolato.

Purtroppo non si farà in tempo per quel termine a restaurare, o per meglio dire, a ricostruire la graziosa e caratteristica casetta medioevale a Porta Romana, detta A Lo parlare agi mesura per la curiosa scritta sovrastante ad uno stemma della facciata. Quel motto e quello stemma, aiich'esso tanto singolare (due teste che si guardano ed hanno le lingue trapassate da un compasso) sono conosciuti in tutta Italia, sono una delle note piú caratteristiche della Città di Teramo. Ed oltre i confini della regione teramana corre la leggenda che si riferisce a quello stemma: una terribile vendetta feudale, l'impiccagione di 13 melatinisti, ordinata da Giosia Acquaviva, signore di Teramo, adirato perchè alcuni melatinisti avevano profferito parole di sdegno e di minaccia contro il tiranno. Si vuole che la casetta fosse di un antonellista, ossia di un appartenente alla fazione opposta. Il monito A Lo parlare agi mesura doveva essere ricordo, monito, minaccia agli infélici superstiti del partito avverso.

In ognuno degli edifici monumentali summentovati il visitatore attento, lo studioso troveranno resti non trascurabili dell'arte teramana delle varie epoche avanzi romani, bizantini, romanici, quattrocenteschi, in particolari architettonici, in lavori di scultura e di pittura. Ma l'attenzione di tutti sarà sempre e principalmente rivolta alle tre gemme dell'arte medioevale teramana, le quali sono: la statua della Madonna nella Chiesa delle Grazie, il paliotto di Nicola da Guardiagrele nel Duomo, il polittico di Iacobello del Fiore in Sant'Agostino.

 

La Madonna seduta adorante il Bambino tenuto sule ginocchia, nella Chiesa delle Grazie, è un gruppo ligneo della fine del quattrocento attribuito a Silvestro dell'Aquila. Incantevole il volto luminoso della Vergine per il pathos sublime che vi è soffuso in modo impressionante. Con le mani giunte, con i1 capo lievemente inclinato, contempla il Figlio divino e sul suo volto sembra passare in un'austera dolcezza la visione del grande destino che Ella regge sulle ginocchia. Una statua che potrebbe portare non indegnamente la firma di un grande scultore moderno. E storicamente la rappresentazione ha una grande importanza, perchè è il prototipo al quale si ispirarono gli intagliatori e plasticatori d'Abruzzo nel ripetere in tanti luoghi questo motivo iconografico.

Il Paliotto, ossia la pala d'altare in argento dorato, nell'interno del Duomo, ricollocato oggi al suo antico posto, cioè ai piedi dell'altare maggiore, è il capolavoro del grande orafo abruzzese del rinascimento, Nicola da Guardiagrele, che vi lavorò dal 1433 al 1448. In una serie di quadretti finemente sbalzati, tra inquadrature di delicati nielli, è raffigurata come un poema tutta la vita e la passione di Cristo. Magnifico monumento d'arte e di fede, esso attesta la nobiltà del popolo teramano del .quattrocento, a cui spese fu compiuta una così preziosa opera d'arte, in sostituzione di un'altra non meno pregevole che era stata involata da un'orda di mercenari francesi nei torbidi del regno, al tempo della Regina Giovanna.

Il Polittico di Iacobello del Fiore nella Chiesa di Sant'Agostino, pregevolissimo per la buona conservazione delle tavole nonchè delle graziose cornici, eseguito nei primi decenni del secolo decimoquinto, porta la firma dell'autore (Iacobellus de Flore Pinxit), famoso pittore antesignano della scuola veneta. In deliziose figurazioni che raggiungono in alcuni punti la finezza della miniatura, vari santi e sante, teorie di angeli e cittadini e agostinìani oranti fanno corteggio alla scena centrale che rappresenta la incoronazione della Vergine. Monumento che non è soltanto d'arte, ma anche di storia; per la veduta dell'antica Città, per le scritte invocanti nei cartigli la protezione sul popolo travagliato, per la prova che questa gemma fulgidissima ci offre delle relazioni fra Teramo e Venezia. A queste gemme se ne aggiungerà ora un'altra non meno fulgida: l' ostensorio cesellato in oro e ornato di pietre preziose eseguito per il Congresso Eucaristico Nazionale. (4‑8 settembre).

 

Ma coloro i quali più che all'arte antica si interessano alle costruzioni e alle opere pubbliche moderne troveranno nella Città di Teramo i segni di un risveglio edilizio che ha raggiunto la maggiore intensità in questi anni dell'Era Fascista. Varie strade interne sono state ripavimentate; all'esterno tutte sono state asfaltate. Fervono i preparativi per la immissione nell'abitato del grandioso acquedotto del Ruzzo, opera di romana grandezza, gloria del Regime. Le banche, gli uffici, le scuole vanno trovando nuove luminose sedi in ampi e sontuosi edifici. Fra le nuove costruzioni primeggiano quelle dedicate alle scuole e alle opere assistenziali. Il Tecnomasio, la Casa del Balilla, il Palazzo del Liceo Convitto, la Scuola Industriale, le Scuole Elementari, l' Istituto Magistrale anche esso ormai a buon punto sono edifici degni di una grande città. Ed anche il Liceo Musicale non tarderà ad avere una sua degna sede. Il Palazzo delle Poste, la Banca d'Italia, hanno nobilitato interi quartieri, mentre provvederanno all'abbellimento del centro i grandiosi palazzi con porticati del Banco di Napoli e del Consiglio dell'Economia. L'Ospedale chirurgico sul Viale XX Settembre e il Sanatorio posto su di un colle vicino, nella gloria del sole, come una trincera in difesa della sanità della stirpe, attestano quanto Teramo sia sollecita della beneficenza e della sanità pubblica. Essa ha posto basi incrollabili pel suo avvenire di centro di studi e di opere umanitarie ed assistenziali, conformemente alla innata gentilezza, alla spiritualità che é in fondo all'anima del buon popolo teramano.

Un Osservatorio Astronomico, un Museo archeologico, una Pinacoteca e la Biblioteca « Melchiorre Delfico » completano in ordine superiore il corredo degli Istituti di istruzione e di educazione. L'Osservatorio di Collurania, a 396 m. sul livello del mare, fondato dall'illustre astronomo teramano Vincenzo Cerulli (1890), e da lui donato nel 1917 allo Stato che lo intitolò al donatore é uno dei più importanti d'Europa, per la limpidezza e la quiete atmosferica che consentono lunghe, indisturbate osservazioni e per la potenza dell'equatoriale, il migliore d'Italia dopo quello di Brera.

 

Le bellezze e i pregi di una città non sono tutti nelle opere d'arte e negli edifici. Sono piuttosto nei monumenti invisibili che la sua anima ha saputo innalzare nei cieli della Patria. Sono anzi tutto nelle tradizioni religiose. Chi scriverà un giorno la « Teramo sacra? ». Colui che s'accingerà a quest'opera potrà raccogliere elementi di un vero poema di spiritualità collettiva. Troverà nella serie dei Vescovi figure di grande rilievo, come Guido II ricostruttore della città dopo la ruinosa irruzione normanna, e chiamato per ciò padre della Patria ed eletto principe di Teramo dallo stesso re normanno come documenta l' Ughelli : tinuit ab eodem Rege in feudum civitatem ipsam, una cum territorio Aprutino, pro se suisque successoribus, sub titulo Principatus. Troverà nei riti, nei culti, nelle solennità un indice costante della gentilezza generosa di un popolo buono, sano, equilibrato; che lavora tacitamente, discreto nell'ombra, fidando nell'ausilio dei suoi protettori: San Venanzio martire, San Berardo vescovo aprutino (festa, 19 dicembre) e la Madonna delle Grazie (festa, 2 luglio).

Berardo dei conti di Pagliara, monaco benedettino, poi vescovo di Teramo, morto il 19 dicembre 1122, é una figura storica cui l' anima teramana si sente profondamente legata. E perciò ogni epoca ha voluto portare il suo contributo alla conservazione delle reliquie del Santo. Il medioevo ci lasciò gli splendidi reliquari di argento (il busto e un braccio), il settecento ci diede la sontuosa cappella ove le ossa furon trasferite il 21 maggio 1776, l' epoca nostra l'artistica urna d'argento ove, dopo il riconoscimento, le ossa sono state riposte (1934). É un culto che ha un riconoscimento anche civile. L'omaggio e la consegna del cero da parte del Municipio durante il pontificale del 19 dicembre é una delle cerimonie più caratteristiche della Chiesa aprutina.

I pregi di una città sono negli scrittori, negli artisti, nei poeti, negli scienziati. Teramo vanta una triade che é di fama universale: Melchiorre Delfico (1744-1835) filosofo, storico, economista, uomo di stato, di cui quest'anno si celebrerà il primo centenario della morte (21 giugno). Commemorazione che avrà un'eco anche all'estero, e specie in Francia, dove l' opera del Delfico é più conosciuta. Commemorazione che acquisterà grande solennità nella Repubblica di S. Marino la quale erigerà una statua a testimonianza di affetto e di gratitudine per colui che fu il suo primo storico, il primo dimostratore e illustratore della libertà perpetua della gloriosa Repubblica del Titano. Giannina Milli (1825-1888) gentile improvvisatrice, che fu la poetessa animatrice del risorgimento. Vincenzo Cerulli (1859-1927) astronomo di fama mondiale, celebre per i suoi studi su Marte.

Le virtù di un popolo sono principalmente nel tributo di sangue dato alla Patria. Teramo non ha ancora eretto un monumento ai suoi caduti, che furon trecento, come gli Spartani alle Termopoli. Con romana austerità si é limitata a scolpirne i nomi in una grande lapide, in caratteri rossi, come si usava ai tempi di Roma. E quelle tre colonne di nomi, tra i quali figura una medaglia d'oro, sembrano tre strisce di sangue scaturito dalle vene dalla italianissima città.

Le storie diranno un giorno del valore dei Teramani in guerra. Riporteranno il telegramma che il Sindaco Faes di Trento indirizzava all'avv. Luigi Paris, Sindaco di Teramo, in data 21 novembre 1918: Libera dell'abborrito servaggio Per virtù dell'eroico Esercito italiano Trento invia fraterno saluto a Teramo i cui forti figli primi ci portarono vita e libertà.» Diranno le storie che a Teramani toccò sovente l'onore di trovarsi a fianco dei maggiori esponenti della Guerra. Diranno dall'eroico tenente dei bersaglieri Dino Danesi, comandante in trincea di Benito Mussolini, ora Duce d'Italia. Diranno del capitano degli Alpini Antonio Negri Cesi che ebbe nella sua compagnia in fraternità di spiriti e di armi, Cesare Battisti, il glorioso martire, che nel 1915 i Teramani avevano ascoltato ardente propagandista della santa guerra, come ricorda una lapide collocata nel Teatro in cui parlò. Racconteranno del comandante Giuseppe Romagna, salvatore dei naufraghi dell'Artide. Leggeranno nelle prose di guerra di Gabriele D'Annunzio le belle parole che il poeta consacra a un umil soldato di Teramo.

Su tante memorie, su così pure glorie splende il sole, rilucono le stelle nelle notti serene. I Teramani sanno che il nome della loro Città é scritto nel cielo. Invano cercano nel cupo azzurro notturno il piccolo pianeta che il loro concittadino Vincenzo Cerulli scopri e intitolò Interamnia. Troppo lontana é quella stella. Ma i Teramani l' hanno presente come un miraggio. Parlando al loro cuore, essa sarà in perpetuo stimolo potentissimo di grandezza, di purezza, di elevazione.

 

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quaderni dell'archeoclub di teramo
a cura di Gianpiero Castellucci

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