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Fedele Romani

Colledara

5. I briganti

 

4. L’Italia una e indipendente. Garibaldi 6. La famiglia si trasferisce a Teramo
 

Ritratto di Fedele Romani, eseguito da Gianfrancesco Nardi

donato dallo scrittore a Vincenzo Rosati nel 1876

 

5. I briganti

La minaccia dei briganti si faceva intanto sempre più vicina e terribile. La banda era composta per lo più di persone delle provincie più meridionali, che erano venute avanzando a poco a poco, per i monti, verso l'Abruzzo, e ad essi s'erano aggiunti via via non pochi, elementi indigeni. Dai monti essi irradiavano, secondo l'opportunità, la loro azione, qua e là nelle contrade più vicine; e, dato il colpo, si ritiravano pronti, guidati da esperte guide, nei cupi avvolgimenti dei boschi e degl'inaccessibili dirupi. Essi per lo più agivano per mezzo di ricatti. Sorprendevano e portavano con sè il capo di casa: poi mandavano a chiedere alla famiglia una data somma, proporzionata alla riputazione di ricchezza che essa go deva. Mi ricordo confusamente, o per averla vista io stesso, o per averne più volte nell'infanzia sentito ripeterne il caso, d'una povera donna appartenente a una di quelle piccole famiglie borghesi che con meschino patrimonio vivevano senza lavoro proprio, e tiravano avanti la vita con stentata misura. Essa, scarmigliata, sudata, piangente andava di porta in porta per le famiglie dei parenti e degli amici più ricchi per mettere insieme la somma di 500 ducati che i briganti le avevano chiesto come riscatto del marito catturato: somma enorme per quella famigliuola. Molti di quelli che avrebbero potuto aiutarla, e forse avrebbero voluto, non osando mostrare in nessun modo di aver denaro in quei giorni che il denaro correva tanto pericolo, si rifiutavano di soccorrerla. Ma finalmente, con piccole sommette raccolte qua e là, quasi tutte dalle famiglie meno ricche, mise insieme la somma grande, e riebbe il marito.

Non sempre però i briganti si servivano di questi mezzi, atroci sì, ma incruenti. A volte, fatti più arditi dalla paura altrui e dalla buona fortuna, assalivano le case, le saccheggiavano, le incendiavano. E oltraggiavano, ferivano, torturavano, uccidevano le persone che cercavano di opporsi ai loro atti nefandi, che non volevano dar denaro, o non volevano rivelare dov'esso fosse nascosto, o che, semplicemente, si rifiutavano di gridare: - Viva Francesco Il! - perchè quei manigoldi, nonostante che non fossero se non veri e proprii ladroni e assassini, volevano innalzare e in certo modo nobilitare il loro carattere, facendo le viste di combattere per un principio politico. Certo, come si sa dalla storia, l'ex Re di Napoli era in relazione coi capi briganti e faceva loro buone promesse e forniva denaro; ma quelli erano briganti di alta reputazione e non brigantucoli, come quasi tutti quelli che infestavano, in quel tempo, le mie contrade.

Tra le bestiali torture che inventava la loro fantasia selvaggia, c'era quella di pillottare, come si fa con l'arrosto perchè venga ben rosolato, le parti posteriori dei poveri infelici che essi credevano denarosi e che spesso non erano tali. Legavano le vittime su di una tavola in modo che stessero immobili e bocconi, e poi, tenendo in mano uno spiedo sulla punta del quale era infilato un grosso pezzo di lardo avvolto con carta e acceso, facevano piovere, su quelle disgraziate carni ignude, stridenti e furiose gocce di strutto infocato. Immaginarsi gli urli e lo strazio degl'infelici, che spesso non aveano modo, essendo veramente privi di denaro, di far cessare, rivelando il ripostiglio, quella selvaggia e miseranda tortura.

Singolare era l'odio che i briganti avevano per i baffi: i baffi erano segno evidente di liberalismo. La foggia della barba, dei cappelli e delle cravatte è stata sempre il mezzo più economico e più sicuro per far sapere agli altri le proprie opinioni politiche. Guai a coloro che, all'arrivo dei briganti, non avevano avuto tempo di levarsi i baffi: c'erano di quelli che portavano a questo scopo sempre un bel paio di forbici in tasca: solo così si sottraevano allo strazio di sentirseli svellere, tra. feroci sghignazzate, pelo per pelo.

Le voci di queste e di altre sevizie accrescevano sempre più il terrore di vedersi assaliti da un momento all'altro; e già, anche di pieno giorno, arrivava a Colledara l'eco di qualche schioppettata tirata dai briganti. Il pericolo era imminente; e perciò le famiglie dei ricchi e dei benestanti, non fidando più nelle provviste di munizioni, nelle feritoie e nelle bombe, credettero bene di fuggire. Rivedo ancora mio padre, che, una mattina (eravamo nell'estate del 1861) tornato da Tossicía, ove si era recato per suoi affari, diceva a mia madre, standosene appoggiato al letto con aria stanca e pensosa, che bisognava lasciar Colledara e andarsene a Teramo. Mia madre accolse la notizia con dolore e spavento.

E il giorno dopo, riuniti in carovana, con parenti e amici, tutti a cavallo (in quel tempo, nel Mandamento di Tossicía, non c'era un solo metro di strada carrozzabile), partimmo per Teramo. Gli adulti avevano tutti il fucile in ispalla: ma, se avessimo davvero incontrato i briganti, a che avrebbero servito i fucili? Avrebbero formato, anzi, un pericolo; ma la fantasia vuole, in tutte le cose, la sua parte.

Di quel viaggio ricordo tre particolari solamente: il primo è l'immagine di mia madre, che, mentre scendeva sulla mula la costa di Colledara, si scoteva stilla sella per la via sassosa e incomoda; e, mentre si teneva con -una mano all'arcione, si asciugava con l'altra gli occhi pieni di pianto. La poveretta che viveva tutta per la famiglia, pensava alla sua casa, già custodita e tenuta con tanta cura, ed ora lasciata alla discrezione dei briganti, che da un momento all'altro l'avrebbero assalita. Il secondo particolare è il terrore con cui riguardammo, anche noi bambini, un albero dove i briganti avevano, giorni prima, impiccato e abbandonato agli uccelli, così spenzolante, un tal Giannone di Basciano; e finalmente, mi ricordo che, poco dopo d'aver raggiunta la via maestra *tra Montorio e Teramo, a un tratto vedemmo di lontano un vivo lampeggiare di baionette. - I briganti! - dissero, e pensarono tutti; e si credettero perduti. lo guardavo con tanto d'occhi, e non potevo rendermi vera ragione del pericolo. Ma non erano i briganti: dopo pochi minuti, si capi che erano soldati, i Piemontesi. Quando ci raggiunsero, ci circondarono curiosi e domandarono dove s'andasse. Saputo che si fuggiva per paura dei briganti, cominciarono a bestemmiare e a invitarci con insistenza a tornare indietro, perchè i briganti sarebbero stati tutti cotti arrosto. Nessuno ascoltò quegli enfatici consigli, e fecero bene. Il giorno dopo, i briganti erano a Colledara; e i soldati si fermarono per due giorni a Montorio, dove passarono il loro tempo bevendo e gozzovigliando.

I briganti trovarono chiuso l'uscio di casa nostra; e picchiarono. Si affacciarono alla finestra due contadini lasciati a guardia: - Che volete? -Vogliamo le armi. - E i contadini, senza aprire, calarono dalla finestra un vecchio fucile da caccia, lasciato da mio padre, appunto per acquietare in qualche modo le brame dei briganti e cercar d'impedire che trascendessero ad atti feroci. I briganti presero il fucile e poi cominciarono a urlare che aprissero. Alcuni non volevano, forse perchè, essendo del luogo, conoscevano di persona mio padre e avevano per lui, come tutti in generale, un sentimento di affettuoso rispetto per via del suo senno, del suo buon criterio, dell'affabilità dei modi e dell'onestà incrollabile; ma può darsi anche che non volessero, perchè sapevano che la nostra famiglia era poco denarosa e senza ripostigli: e non desideravano di perder tempo. A ogni modo, vinse il partito di quelli che volevano entrare. Non fecero gravi danni: la poca roba preziosa era stata portata via; rubarono molta parte della biancheria ed altri oggetti e provviste di famiglia; e fecero la festa a una botte di vino vecchio cotto, riempita da mio nonno vent'anni prima: vino che si mesceva solo nelle occasioni solenni, in piccoli bicchieri, e si beveva centellinando. Tirarono una fucilata nel mezzule della botte e poi riempivano i bicchieri allo zampillo che usciva impetuoso dal foro aperto dalla grossa palla «di munizione».

Quando se ne andarono, erano tutti cotti conte monne, e forse per questo non commisero altri vandalismi. Così, più dei soldati che se la godevano a Montorio, valse a difendere la nostra casa quella ingenua botte di vino vecchio; e-lo spirito del nonno che l'aveva tramandato, fu, scintillando immortale nei colmi bicchieri, il genio protettore della famiglia.

Nella casa d'un nostro parente, ritenuto ricco e denaroso, i briganti con una scure ruppero e scheggiarono tutto lo sportello d'un armadio finto a muro; e, non avendovi trovato nulla, sfogarono la loro rabbiosa delusione, disegnando, in istile brigantesco, sulla parete intonacata, bersaglieri ed altri soldati mentre venivano uccisi dai briganti. Non avendo potuto esser ladri, si contentarono di essere artisti. I proprietarii della casa, che forse temevano di passare per borbonici, serbarono lungamente quello sportello scheggiato, così come l'avevano lasciato i briganti, per farsene una testimonianza in caso di bisogno. Ma, o per una ragione, o per l'altra, non si può dire che a Colledara i briganti facessero grandi rovine.

Finalmente i soldati lasciarono Montorio e arrivarono anche al mio villaggio; e lì, via via che qualche brigante cadeva nelle loro mani, per la legge marziale lo fucilavano senz'altro. Queste rapide esecuzioni riempivano di spavento, e i briganti si disperdevano, o riprendevano la via della montagna.

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Sommario

Introduzione e indice

Testo: 1 - Colledara e il Gran Sasso; 2 - I nonni; 3 - L’eccidio di Brozzi; 4 - L’Italia una e indipendente. Garibaldi; 5 - I briganti; 6 - La famiglia si trasferisce a Teramo; 7 - La madre di Fedele; 8 - Il padre di Fedele; 9 - Lo studio del padre; 10 - Le persone del villaggio; 11 - La chiesa di Colledara; 12 - Il pranzo; 13 - Il ballo; 14 - La vita a Colledara

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