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Fedele Romani

Colledara

8. Il padre di Fedele

 

7. La madre di Fedele 9. Lo studio del padre
 

Ritratto di Fedele Romani, eseguito da Gianfrancesco Nardi

donato dallo scrittore a Vincenzo Rosati nel 1876

 

8. Il padre di Fedele

Il patrimonio trasmesso a nostro padre dal nonno era ben piccolo; e le nuove tasse assorbivano la maggior parte della scarsa rendita. I guadagni che il babbo ritraeva dalla professione, erano anch'essi ristretti. Egli era uomo d'ingegno aperto e pronto, ed aveva una cultura legale non comune in quei tempi e in quei luoghi; ma era insieme, in certo modo, quel ch' oggi si dice uno spostato. La condizione di avvocato di campagna non gli permetteva di adoperare tutte le sue attitudini e la sua cultura, di accrescerla, affinarla, e di raggiungere quel grado di perfezione di cui la sua mente sarebbe stata capace. E gli studii fatti e quel certo senso di signorilità che essi gli avevano infusa, lo allontanavano, d'altra parte, sempre più da quelle occupazioni a cui principalmente e più proficuamente avrebbe potuto attendere nel luogo dove abitava.

Ho detto dello sdegno della piccola borghesia di quei paeselli per il lavoro dei campi e anche per il commercio: questo sdegno s' era naturalmente accresciuto in mio padre per la condizione intellettuale che gli avevano procurato gli studii e l'ingegno. Egli avrebbe potuto essere un eccellente agricoltore nel senso elevato della parola, e avrebbe potuto accrescere il suo patrimonio; ma il pregiudizio dei tempi e dei luoghi ne avevano fatto un avvocato fuori di posto. È vero che i suoi concittadini, riconoscendone il merito, lo vollero, si può dire, sindaco a vita, e consigliere provinciale; ma queste cariche non facevano che accrescere le ragioni delle spese e diminuire quelle del guadagno. Perciò mio padre si trovava spesso in strettezze, che egli nascondeva gelosamente a noi figli e confidava solo a nostra madre. Il fondaco e la cantina erano, è vero, sempre ben provvisti; ma ci poteva essere il caso, in quei paesi, allora, quasi del tutto privi di commercio, d'affogar nella roba e non aver un soldo. E, anche a venderle, le rendite non portavano gran vantaggio, perchè costavano poco. E il governo, con l'abituale cecità livellatrice della stupida burocrazia, metteva le tasse come se le derrate fossero costate molto.

La rendita principale era quella del vino. Nei primi anni della mia vita, s'usava, in generale, il vino cotto. Il mosto si faceva bollire in una gran caldaia di rame e poi si metteva nella botte; ma veniva per lo più tagliato con una certa quantità di mosto crudo. L'uso di cuocere il vino derivava dal bisogno di renderlo più resistente e capace di affrontare i calori dell'estate; e allora non si conosceva nei miei paesi altro metodo. Ma più tardi i sistemi si perfezionarono alquanto, e cominciò a rendersi più comune l'uso del vino crudo, specialmente d'un vino rosso cupo, e quasi nero, chiamato da noi, non so con quanta precisione, Montepulciano. Mio padre fu il primo a introdurne dalle nostre parti i magliuoli, che gli furono regalati da un suo amico di Popoli, cittadina della provincia di Aquila. Poi -a poco a poco se ne estese la coltivazione, e tutta la contrada si vestì di vigne di Montepulciano. Ma i proprietarii non hanno mai cercato di mettersi d' accordo per fabbricare un tipo costante di vino; e ogni famiglia ha il suo bicchier di vino speciale, che non è, neppure, tutti gli anni lo stesso.

Mio padre sorvegliava con amore, benchè un po' distratto dalle cure della professione, i lavori della vendemmia; ma i suoi metodi si mantennero sempre, nonostante qualche piccola novità via via, quasi del tutto primitivi, e gli stessi, in fondo, di quelli degli altri proprietarii di quei luoghi.

Io amavo quell'andare e venire, quei muli carichi d'uva, quell'acuto odore di vinaccia e di mosto, quell'operoso ronzio di api e di vespe attorno ai bei grappoli succosi, e gli stornelli delle giovani vendemmiatrici, che, illuminati di sole e d'amore, echeggiavano per la Valle, suscitando nel mio petto un senso- indefinito di profonda poesia. Mi giunge ancora dalle remote serenità del passato la voce di Luisa che canta La violetta, e risento ancora Mariuccia che, in una catena di altre robuste fanciulle, intona il coro:

Quando nascesti tu, stella lucente....

Ogni sera si radunava nel bregno (dial. vragne: così si chiama l'edifizio dove si pesta l'uva e si cuoce il mosto) un festoso gruppo di giovanotti e di ragazze, allegri come il fuoco della caldaia che colorava i loro visi. Rivedo tra essi il bregnarolo Carluccione, coi suoi pantaloni rimboccati fin sopra il ginocchio e col suo inesauribile tesoro di frizzi, di motti e di aneddoti maliziosi. Ma i più caldi applausi gli toccavano quando rifaceva il parroco nella predica della Pasqua di Risurrezione: predica che, da quarant'anni, era sempre la stessa, senza che una parola, nè una sillaba fosse mai cambiata; e perciò era costata poca fatica a Carluccione d'impararla da cima a fondo coi suoi bravi Resurrexit: non est hic ripetuti ogni tanto.

Essendo, ordinariamente, troppo scarse le rendite della terra, e troppo misero il loro commercio, le famiglie più agiate di quei villaggi cercavano tutte di portare un qualche rincalzo ai bilanci domestici, più o meno barcollanti, con l'industria, esercitata molto in piccolo, dei bachi da seta: industria che, come tutti sanno, può riuscire rapidamente e largamente rimunerativa. Anche in casa nostra, due camere dell'ultimo piano, un po' più alla buona delle altre, si trasformavano in bigattiera. Ma se l'allevamento andava proprio. bene e la morte non decimava, inesorabile, come spesso accadeva, le file dei bachi e le speranze della famiglia, i bachi divenivano, sto per dire, i padroni della casa: graticci nelle camere da letto, graticci nella stanza da pranzo, graticci in cucina, graticci da per tutto. La casa si riempiva d'un odore caratteristico di foglia di gelso tritata e fermentata, e di quel rumore di allegra pioggerella primaverile che i preziosi animaletti fanno rodendo avidamente il verde e fresco loro cibo.

Mio padre si riteneva lui stesso, e lo ritenevano gli altri allevatori del villaggio, per un gran bacologo. Egli aveva letto qualche trattatello della materia e confondeva tutti con la sua scienza. Nei momenti di ansietà e di dubbio era spesso chiamato e consultato; e i suoi responsi e i suoi consigli, irti di parole complicate e difficili, apprese nei libri, erano ascoltati con ammirazione e fiducia. Ma, se posso oggi nutrire qualche dubbio sulla sua scienza bacologica, non posso dire che, in quei giorni d'allevamento, egli non fosse davvero, per quanto gli era possibile, in gran faccende per dirigere, sorvegliare, ammonire, e per dare, anche, una mano alle operaie e alla mamma, che, infaticabile sempre, si faceva in quattro, e non dimenticava i bachi per la cucina e le altre necessità della famiglia. Peccato che tante fatiche, tanti sudori fossero spesso mal rimunerati. I casi d'infezione erano frequenti, e tutte le speranze andavano in fumo; l'estenuato bilancio domestico, invece di rinvigorirsi, riceveva un altro fiero colpo. Nuova causa di scontento si aggiungeva allo scontento abituale.

Nè i ristretti guadagni professionali di mio padre erano in denaro: il denaro si vedeva raramente: quando un cliente lo retribuiva con una piastra (5 franchi e 2 soldi), egli mostrava quella piastra a mia madre, e mia madre con viso di soddisfazione lo raccontava a noi anche a qualche contadina di confidenza. I guadagni erano tutti come si suol dire, in natura: polli, tacchini, capretti, uova, ecc.; ma più spesso uova e pollastri. Oh quante volte in casa mia si è ripetuto il fatto di Renzo, che non voleva consegnare i polli alla serva del Dottore per paura che il padrone non li vedesse. I contadini delle mie parti non si fidavano, non dico della serva, ma neppur di mia madre; e ce n'erano di quelli, che, non potendo altro, carpivano le penne, mentre salivano le scale, a quei poveri polli, e davano loro furiosi pizzicotti alle creste, perchè facessero rintronare con gli urli tutta la casa, e il babbo fosse avvertito. Povera mamma! come meritava poco quella rustica diffidenza. Essa con quei pollastri, con quelle uova, con quei tacchini pensava alle piccole spese di casa e non tormentava il babbo. Due o tre volte la settimana, metteva insieme una canestra di quei doni; vi aggiungeva, secondo la stagione, delle frutta, qualche forma di cacio portata dai nostri contadini, e li mandava a vendere a Tossicía. E, oltre a provvedere alle piccole spese di casa, essa metteva da parte qualche solderello per darcelo al momento dell'addio, quando partivamo per gli studii; e quei solderelli, che essa aggiungeva ai denari datici dal babbo, non erano già il meschino saggio, come a volte accade, di un tesoro nascosto; no: erano tutti quelli, proprio tutti quelli che essa aveva e che era riuscita a salvare tra tante spese. E noi li accettavamo, spesso voltando il viso dall'altra parte per nasconder le lacrime che quell'atto pieno d' inconscia, ingenua gentilezza faceva sorgere nell'anima nostra.

E la casa era sempre pulita come uno specchio: ogni cosa aveva il suo posto; nè stanchezza, nè pigrizia dovevano mai !ad" a lasciarla altrove dopo che l'avevamo presa e usata. E noi bambini portavamo abiti semplici, ma puliti e senza strappi; e nessuno ci vedeva girare per il villaggio come tanti altri, appartenenti anch'essi a famiglie di benestanti, con le scarpe a bocche aperte e coi calzini sbrindellati che vi ricadevano sopra. La povera mia madre era sempre a pensare e a riflettere con quella sua bella fronte quadrata, piena d'intelligenza, per trovar modo di mandar avanti bene la famiglia e di toglier d'imbarazzo il marito, quel marito pel quale, più che amore, ella aveva adorazione.

Mio padre era portato a una certa larghezza e a una certa comodità di vita, per quanto l'ambiente del villaggio- lo permetteva. Egli era molto conosciuto ed apprezzato anche nel capoluogo della provincia, e desiderava di figurare e di mantenersi degno, anche per la vita esteriore, di quella considerazione e di quel rispetto, di- cui tutti lo circondavano. Perciò egli spesso veniva a trovarsi a dover spendere più di quello che forse poteva. Ma mia madre vegliava, infrenava e regolava quegl'impeti troppo generosi. Eppure essa era uscita da famiglia agiatissima, la quale, se non era nobile nel senso preciso di questa parola, viveva da secoli signorilmente, aveva dato degli uomini assai reputati per studii e per ingegno; ed era imparentata con molte delle più cospicue famiglie della provincia. Essa soleva vantar spesso la sua origine; ma non per rinfacciarla al marito, che apparteneva a famiglia più nuova: la vantava per infonder in noi quell'orgoglio di stirpe, che è ridicolo, quando non corrisponde al merito, ma che è, d'altra parte, causa tanto nelle famiglie, quanto nelle nazioni, quanto nelle razze, dei più alti e nobili fatti. E, purchè noi fossimo bravi, purchè il marito fosse ammirato e la famiglia tenesse nel concetto del pubblico un posto elevato, essa si sarebbe privata,-non dico d'ogni sorta di divertimenti (chè non ne vedeva, si può dire, neppur l'ombra), ma d' ogni riposo e d' ogni ristoro. Certo aveva anch'essa i suoi pregiudizii, frutto dell'educazione e dei tempi; ma chi di noi non ne ha? E chi di noi non sembrerà che ne abbia avuti a quelli che verranno dopo di noi e potranno giudicare i nostri pensieri e i nostri sentimenti? Essa non aveva ricevuto quasi nessuna istruzione: sapeva appena mettere insieme la sua firma; perchè, nella sua giovinezza; i più dicevano che -insegnare a scrivere alle ragazze era come un volergli insegnare a fare all'amore; ma il suo buon senso, l'agilità e, dirò, la profondità naturale del suo cervello, non facevano quasi sentire il danno di quella mancanza d'istruzione. Nel far di conto, essa soltanto con la mente e voi anche con la penna, potevate star sicuri di rimanere addietro.

Quando io ripenso a quella vita oscuramente laboriosa, a quei pochi solderelli messi insieme con tanta cura e tanta abnegazione, tutti per noi e per il nostro bene; a quell'affetto incrollabile, a quel profondo sentimento di famiglia e di stirpe, mi nasce nell'anima un vivo desiderio di dar forma eterna con la voce dell'arte a quella -vita, a quei sentimenti, a quegli affetti; e vorrei saper esprimere tutto quello che io immagino, tutto quello che io vedo; vorrei scrivere la pagina che ho sempre sognato, ma non ho saputo mai scrivere: quella pagina in cui l'anima mia ha tante volte cercato di fermare le più musicali e più divine sue vibrazioni.

Mentre ora ricordo e scrivo, mi trovo all'ombra d'un faggio dell'Appennino toscano. Ai miei piedi si stende, piena di luce e di colori, la gaia pianura dove fiorisce Pistoia. Tutt'intorno mi conforta e saluta un pensoso profuma di fieno, che gli uccelletti sanno tradurre- in liete note d'amore. Da una villetta vicina salgono, piene di visioni di luoghi, di tempi e persone care e d'indomabili speranze, le note d'un valzer. I monti che mi fanno corona non sono quelli del nativo Abruzzo; non hanno il loro sguardo terribile, quella faccia minacciosa; non sanno dire le loro sublimi parole: essi sono più miti e più gai; il loro linguaggio è più dolce, e l'abito più gentile. Ma, laggiù lontano, alla mia destra, s'affaccia ardita un'aspra e nuda punta grigio rosata, che sa risvegliarmi più vivo il ricordo di quella del mio superbo Monte Corno; e io rivolo col pensiero alla Valle Sicula, conca verde che si incurva dinanzi al gigante d'Italia; e nel bel mezzo di essa vedo elevarsi il colle vestito di querce e di ulivi, dove ride, macchia bianca tra il verde, il mio piccolo Colledara. Ai suoi piedi, il vecchio Mavone va ripetendo alle rocce e ai seminati gl' instancabili inni alla sua bellezza e al suo riso. E rivedo la mia casa col colore che essa aveva quando ero bambino, col pesante cornicione ideato dal nonno: le finestre, il portone, le camere, le stanze, la sala, tutto riprende il colore, l'aspetto di quando ero fanciullo. È una serena e luminosa giornata d'estate: il Gran Sasso spicca nitido e tagliente sul cielo azzurro: il caldo, temperato da una fresca e viva brezzolina, che viene dalla parte del mare, parla d' ogni intorno con la misteriosa voce delle cicale e con un penetrante odore di biade mature. É già mezzogiorno: l'ombra proiettata dalla casa davanti al portone si è già raccorciata fino al mezzo della via: questa è la più sicura delle meridiane. È mezzogiorno: la tavola è apparecchiata e la bella tovaglia di lino damascato biancheggia su di essa. La donna entra nel portone in questo momento, tornando dalla fontana con la lucida conca di rame sulla testa: la limpida acqua fresca si agita e scintilla al sole. Ma la minestra non è ancora stata messa. Perchè? Chi si aspetta? Il babbo non è tornato ancora da Tossicía, dove è andato per una causa in pretura. La mamma s'affaccia ansiosa alla finestra, va e viene e guarda lontano. Ecco là, sul colle di faccia, nella strada della fonte, un ombrellino chiaro tra le folti siepi, e s'avanza: - É lui; mettete la minestra. - E dopo dieci minuti, ecco un allegro scalpitio della giumenta sui ciottoli della via, e un allegro nitrito cui risponde dalla stalla chiusa un altro, sordo, nitrito di lunga aspettativa appagata. Ecco il babbo che sale le scale col suo bel viso sincero e sorridente, tenendo bravamente in mano una frasca di sanguinella con cui ha sferzato la giumenta. Avanti: ci siamo tutti: a tavola.

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Sommario

Introduzione e indice

Testo: 1 - Colledara e il Gran Sasso; 2 - I nonni; 3 - L’eccidio di Brozzi; 4 - L’Italia una e indipendente. Garibaldi; 5 - I briganti; 6 - La famiglia si trasferisce a Teramo; 7 - La madre di Fedele; 8 - Il padre di Fedele; 9 - Lo studio del padre; 10 - Le persone del villaggio; 11 - La chiesa di Colledara; 12 - Il pranzo; 13 - Il ballo; 14 - La vita a Colledara

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