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Fedele Romani

Colledara

10. Le persone del villaggio

 

9. Lo studio del padre

11. La chiesa di Colledara
 

Ritratto di Fedele Romani, eseguito da Gianfrancesco Nardi

donato dallo scrittore a Vincenzo Rosati nel 1876

 

10. Le persone del villaggio

Ma non era necessario che, per esercitare il mio istintivo spirito d'osservazione, i bei tipi originali io li andassi ricercando tra i clienti che arrivavano a mio padre d' ogni parte del mandamento, e anche da altri luoghi della provincia. Lo stesso nostro piccolo villaggetto ne forniva una buona quantità. In quell'ambiente semplice e rozzo la pianta individuo aveva modo di crescere e di esplicarsi con molta libertà e poteva innalzare e stendere, senza temer troppo l'opera livellatrice d'un qualche importuno giardiniere, i suoi rami rigogliosi. Perciò abbondavano, nonostante lo scarso numero di abitanti, i tipi singolari tanto per la figura che per il carattere. Rivedo Sbaraglia, vecchio sdentato, decrepito, che correva sempre, come un ragazzo, e aveva la proprietà, mentre appallottolava le parole, di saettar sul viso del suo interlocutore una pioggia di pallini. Ricordo Finissa col suo grosso orecchino di carne, che le pendeva dietro un orecchio, coi suoi baffi, la voce rauca e i rutti profondi: essa aveva la proprietà di fare dei rutti che rintronavano come tuoni, e si sentivano a distanza e prenunziavano il suo arrivo. E, quando io ero affacciato a una certa finestra della mia casa che dava sui tetti delle casupolette che l'attorniavano, tra le quali c'era anche quella di Finissa, si sentivano al di sotto dei tetti e delle tegole risonare cupamente i rutti, che si elevavano al cielo insieme col fumo dei fitti e neri camini. E il marito di Finissa, Zaccaria, soleva rispondere a quei boati con qualche massima di rassegnazione. Era questo Zaccaria un saggio, pieno di proverbii e di massime, o ereditati da una tradizione nota a lui solo, o composti proprio da lui. I suoi più frequenti intercalari erano: Suona chitarra chè voglio ballare (suna catärre cà vujj' abballä') e: Accómodati, chè sederai (allùchete cà tte sì). Egli portava le brache corte all'antica, e aveva la specialità di tenerle sempre giù, quasi fino all' inguine: pareva sempre che, da un momento all'altro, con scandalo di tutti, lo dovessero abbandonare; ma non lo abbandonavano mai, come fossero ritenute da un secondo fianco che, a poco a poco, gli si fosse formato all'altezza dell' inguine. E aveva davanti lungo e rigonfio il petto della camicia, quel petto di cui i contadini sogliono all'occasione servirsi come di sacco per le frutta e ogni altro ben di Dio; e Zaccaria non mostrava solo il petto, ma quella che chiamerò la pancia della camicia. Rivedo ancora il suo viso senza barba e il nobile profilo da imperatore romano. E chi può dimenticare la Mozzetta col suo naso all'insù e la parlantina a turbine: brutta come il demonio, sempre corteggiata da tutti i giovinotti del villaggio, e non sposata mai da nessuno? Ecco un crocchio: la Mozzetta è nel mezzo; e, attorno, stanno a sentire, Giuliana, lunga come una pertica e con gli occhi atteggiati a eterno stupore; la Papaccia, cosiddetta forse dalla sua voce di anatra, che, specialmente quand' essa letica, fa pa, pa, pa, pa, pa; e Antonia della 'Nfarina, che ha due denti soli, lunghi come zappe, sul davanti. Lì vicino giuocano all'asso piglia tutto, il Banchiere, che già conoscete; Scrippelle, col vestito di toppe, dove non si sa più quale sia la toppa rimasuglio dell'abito primitivo: il più disperato del villaggio, per modo che il suo nome ha finito col voler dire povero in canna; e Cicicco, con la voce animalesca e stridente come quella dei maiali che egli scanna da maestro.

Quasi tutti erano chiamati, come si vede, col soprannome. Il nome non ha quasi mai nessuna relazione con la persona che lo porta: esso è dato poco dopo della nascita, ed è difficile che poi venga a mettersi in qualche rapporto, o per il suono o pel significato, con la persona che lo possiede. A questo difetto ripara il soprannome, che è quasi sempre suggerito da qualche azione, o qualità, o detto della persona a cui è attribuito. I soprannomi sono tanto più frequenti là dove è più facile, per lo scarso numero delle persone, acquistar profonda conoscenza di esse. Meglio si conoscono le persone, e più si è scontenti del loro nome che non ce le rappresenta bene. Perciò gli scolari chiamano, quasi sempre, con un soprannome i loro maestri, anche quelli a cui voglion bene: sentendoli parlare, si può dire, dalla mattina alla sera, ed essendo obbligati a tener loro sempre gli occhi addosso, anche per anni ed anni, finiscono con l'averne una conoscenza tale che fa nascere spontaneo sulla loro bocca il vero nome che, secondo loro, il maestro era nato a portare.

E la scarsezza del numero delle persone da cui siamo attorniati, non serve soltanto a rendere più profonda la conoscenza di esse: il nostro spirito, o in un modo o in un altro, cerca di adoperar sempre tutte le sue forze. Nel mio villaggio io conoscevo i galli, e le galline, i muli, le pecore, i cani; ne vedevo la fisonomia, ne indovinavo l'indole e i sentimenti, come facevo con le persone. E non mi limitavo a questi animali grandi e domestici: avevo qualche notizia di dove soleva prendere più volentieri il sole la tal lucertola, dove mandare il suo ostinato e malinconico grido la tale strige. E avevo conoscenza e amicizia con molte piante che mi porgevano affettuosamente i loro rami quando mi arrampicavo per gustare i loro frutti deliziosi. Ma in modo speciale io conoscevo i segreti di due ornelli, che si ergevano a fianco della casa coi loro alti e lisci fusti, con le loro chiome lussureggianti, e con le liete e rumorose famiglie di uccellini a cui davano fresco e sicuro alloggio. Attraverso i loro rami e le loro fronde spesso parlava la luna, spesso parlavano le stelle a me che sedevo pensoso in un sedile di pietra posto di faccia; e, mentre guardavo quei rami e quelle fronde che si profilavano nere sul cielo, e mentre li venivo fissando sempre più, spesso accadeva che essi si accordassero e unificassero coi miei pensieri, e ne divenissero la forma visibile e, dirò così, l'incarnazione.

Non so esprimere il dolore che provai il giorno che mio padre, avendo bisogno di due antenne per un palco da muratori, fece recidere quei due ornelli, in cui, insieme ai miei pensieri e ai festosi uccellini, abitava anche l'anima del nonno che li aveva piantati. Al loro posto rimasero, è vero, due robusti polloni, che dovevano, crescendo, poi farne le veci; ma essi, per quanto poi si sforzassero con sorrisi e lusinghe di acquistarsi il mio affetto, non ci riuscirono mai pienamente: la loro voce non era quella dei padri loro; nè essi sapevano dirmi le stesse cose per quanto si provassero, a volte, pietosamente a ripeterle.

E, se c' erano tante piante che amavo, ce n'era anche una per cui provavo, più che amore, un sentimento quasi di venerazione; ed un'altra che mi destava una profonda ripugnanza e forse anche paura. La pianta venerata era la cosiddetta quercia di Farinelli, vecchio quercione maestoso a cui i secoli avevano scavato a poco a poco le viscere. Essa vive ancora; e la sua circonferenza, specialmente alla base, è così vasta, che nell'interno possono abitare comodamente alcuni maiali. La buona quercia fornisce loro il nutrimento con le sue ghiande e il ricovero con le ampie cavità delle sue viscere. Ma non è molto lontana la sua fine: le sue braccia e le sue chiome si vanno facendo sempre meno ricche e meno lunghe, e già non rispondono più alla ventraia.

Il proprietario di cotesto albero venerando era Paoluccio. Dicevano che il suo vero mestiere fosse quello del falegname; ma, in realtà, egli esercitava quasi tutti i mestieri: accomodava orologi, ombrelli e tutti gli utensili di casa e di campagna; metteva i vetri alle finestre; saldava i metalli: personaggio importantissimo in quei villaggi dove mancavano quasi del tutto gli artigiani.

E questo Paoluccio trovava il tempo non solo di esercitare i suoi cento mestieri, ma di salire e scendere infaticabilmente le scale degli avvocati, delle conciliazioni, delle preture e dei tribunali: egli aveva la febbre, il furore delle liti e dei giudizi; e, quando non trovava più da intentar cause per conto suo, comprava le cause degli altri per non restar privo di quel nutrimento indispensabile alla sua vita. La lite giudiziaria serviva a dare un giornaliero punto d'appoggio alle sue speranze, a tener deste e vive le sue facoltà intellettuali; e guai a chi toccava di trovarsi in lotta con lui. Egli tendeva a distruggere l'avversario: l'avvolgeva, lo spremeva con le mille spire del suo instancabile accanimento, e non lo abbandonava, se non quando lo vedeva incapace a più muoversi.

Paoluccio veniva spesso a casa nostra tanto per ragione delle sue svariate e non comuni attitudini meccaniche, quanto per le mille liti che tenevano in continuo moto turbinoso il suo versatile cervello. E il turbine interiore si rifletteva al di fuori nel turbine inesauribile del discorso. Le sue parole si seguivano, o, meglio, si rincorrevano con rapidità fulminea; entravano l'una dentro l'altra come i tubi d'un canocchiale, e formavano una specie di stenografia applicata ai suoni.

Egli soleva mostrare con orgoglio ai visitatori la sua quercia, e forse gli pareva che il merito di quella lunga vita si riflettesse, in certo modo, su di lui. Aveva adattato alla piccola apertura che dava adito alle cave caverne una rozza porticina e una sbarra; e dalle fessure, mentre egli da bravo cicerone esaltava i meriti e l'utilità di quel monumento vegetale, spesso s'affacciavano, grugnendo, e soffiando, quasi a dar credito alle sue parole, i neri irrequieti musi, sudici di crusca, di tre o quattro maiali.

L'altra pianta che, come ho detto, destava in me un sentimento di ripugnanza mista a paura, aveva una specie di pancia umana, e in fondo alla pancia i bruchi tessevano in folla le loro luride tele. Quella era la rogna; non c'era nessuno che, passando, non si scostasse da quella quercia maledetta, su cui gli uccelli non ardivano nè di fare il nido, nè di fermarsi a cantare.

E così il mio piccolo Colledara veniva ad acquistare per me la popolazione di Parigi o di Londra; ed era vero ancora una volta che l'uomo non può cambiare che solo in apparenza l'essenza delle cose; o, per meglio dire, che tutte le cose in fondo si equivalgono, e che se da un lato si perde, dall'altro si acquista, come avviene nell'orologio a polvere.

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Sommario

Introduzione e indice

Testo: 1 - Colledara e il Gran Sasso; 2 - I nonni; 3 - L’eccidio di Brozzi; 4 - L’Italia una e indipendente. Garibaldi; 5 - I briganti; 6 - La famiglia si trasferisce a Teramo; 7 - La madre di Fedele; 8 - Il padre di Fedele; 9 - Lo studio del padre; 10 - Le persone del villaggio; 11 - La chiesa di Colledara; 12 - Il pranzo; 13 - Il ballo; 14 - La vita a Colledara

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