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Fedele Romani

Colledara

12. Il pranzo

 

11. La chiesa di Colledara 13. Il ballo
 

Ritratto di Fedele Romani, eseguito da Gianfrancesco Nardi

donato dallo scrittore a Vincenzo Rosati nel 1876

 

12. Il pranzo

Mentre la processione riempie di canti sacerdotali e di stamburate le vie, per solito così tranquille, della campagna, e gli stendardi lieti di respirare a pieni polmoni quell'aria libera, che non odora nè d'incenso, nè di candele, nè di morti, fanno mille giuochi coi rami delle querce; in casa c'è un grande affaccendarsi per il pranzo. La mamma è andata alla prima messa e ha dovuto rinunziare alla messa cantata per non allontanarsi dal campo di battaglia, e impartire ordini, disporre, preparare e dare una mano sapiente. Il corpo della servitù è stato rinforzato di parecchi elementi avventizii; e questo non contribuisce molto, a dir vero, al buon andamento dei preparativi. Gli ordini non sono sempre compresi, ne eseguiti con esattezza: la nuova gente non conosce bene le abitudini della casa, nè sa prevenire e comprender bene le intenzioni della mamma, spesso tradite dalla parola troppo rapida e sintetica; e la mamma stessa, tolta alla serenità della vita abituale, spesso affolla troppi ordini in una volta, e poi sfoga in rimproveri, non sempre, a dir vero, del tutto giusti, l'agitazione dell'animo suo per il disordine che vede intorno a sè. Si nota da per tutto un grande ardore: gli armadii si aprono e si chiudono; i bicchieri, le forchette e i piatti danzano allegramente tra loro; e, giù per le scale di pietra s'odono stridere, tra dolorosi guizzi di nervi, le grosse scarpe ferrate; e pare che chi le porta, più che scendere scalino per scalino, vada in fondo con rovina precipitosa.

Il capocuoco è il segretario comunale, Giovacchino, che è venuto accompagnato dagli arnesi più preziosi del mestiere, fin dalla sera avanti. Egli parla poco, anzi non parla per niente affatto; e non scompone mai la sua faccia serena, contenta del massiccio naso che l'ombreggia, e tutta popolata di nei. Ogni tanto, nel vedere che le vivande bollono e si coloriscono bene, fa sentire in fondo alla gola un ehm caratteristico di profonda soddisfazione. Egli va attorno con un bel grembiale che serba tutte ancora fresche le pieghe del bucato, e lavora senza posa. Del resto, egli, con bella previdenza, ha già preparato, fin dalla sera avanti, il fritto di latte rituale e la pizza dolce. Le pietanze non vengono portate tutte calde a tavola: caldi bollenti devono essere i maccheroni; il resto, d'ordinario, è freddo, o, tutt'al più, tiepido, ed è stato preparato e messo da parte via via, o nelle stesse lunghe ore del pranzo, o fin dal giorno prima.

Intanto arrivano gl'invitati, o, come li chiamano, i forestieri; e pensa il babbo a riceverli. I saluti sono piuttosto caricati e officiosi. Mi ricordo d'un parente che si annunziava chiamando mio padre dal fondo delle scale ad alta voce: --- Parente! - e il babbo che l'aveva subito riconosciuto, scendeva le scale ripetendo: - Che onori son questi! Che onori son questi! - Molti sorrisi di soddisfazione da ambe le parti; e si parlavano per lo più col voi, che laggiù vale quanto il lei. Era rarissimo il tu: in generale, le persone delle classi agiate non entravano fra loro in vera confidenza sincera e disinvolta; anche i vecchi compagni di scuola, anche i parenti, si trattavano sempre a una certa distanza, piena di officiosità e di riguardi piuttosto compassati.

Tra gl'invitati abbondavano naturalmente i preti; i quali nei villaggi rappresentano, o, meglio, dovrebbero rappresentare, in modo speciale, la cultura e la civiltà; e sono spesso la linea di transizione tra lo stato di contadino e quello di signore. Il contadino che vuol divenire signore, comincia col farsi prete.

C'erano vecchi preti rozzi, col naso e il gilè tabaccosi, e cappellacci a larghe accartocciature; c'erano preti giovani, con certa pretensione di eleganza e con riputazione di liberali. Ma essi, più che l'amore della patria, coltivavano quello per la donna. Mostravano, come ho detto, un certo studio d'eleganza. Non credo che ci sia classe sociale, nè foggia di vestire che non possa avere la sua particolare eleganza, non fosse altro per la maniera di portare gli abiti. Forse, in questo senso, a ricercarla bene, si potrà, a volte, scoprire l'eleganza anche nell'infamante costume dei reclusi. L'eleganza di quei giovani preti liberali consisteva nel portare una chierica molto piccina e, qualche volta, col non portarla per niente affatto, o in gran parte obliterata dai rinascenti capelli; nel tenere il collare molto serrato al collo, in modo che la grossa pelle rifluisse sopra; e il collare doveva essere non già alto due o tre dita, come quello dei vecchi pretoni, ma un dito appena; e, finalmente, era ritenuta eleganza il portar la sottana invece del tradizionale soprabito e il radersi la nuca col rasoio; e niente scarpe con le fibbie, ma stivaletti con l'elastico. Questi preti giovani ed eleganti venivano per lo più da famiglie di contadini. I nuovi tempi cominciavano ad essere troppo contrarii alla religione ed al sacerdozio, e i giovani delle famiglie signorili preferivano rimaner secolari: i contadini, invece, profittavano dei posti lasciati vuoti dai signori, e s'affollavano intorno ad essi per occuparli e aprirsi una via anche loro all'ambita considerazione degli altri. Nè era difficile conseguire l'intento, perchè i vescovi possedevano un'arte squisita nel foggiare quei nuovi sacerdoti, e se ne sbrigavano con due o tre anni di seminario.

La maggior parte dei forestieri venivano in casa la mattina della festa, poco prima di mezzogiorno, e ripartivano dopo il pranzo, sul tardi; ma alcuni, amici più intimi, o parenti, venivano il giorno della vigilia; e, se la festa, come spesso accadeva, durava più di un giorno, essi si trattenevano per tutto quel tempo, e, alle volte, anche qualche giorno di più. In mancanza assoluta d'alberghi, l'ospitalità era un bisogno, e la si praticava con la spontaneità delle abitudini più naturali; ogni casa agiata aveva una o due camere, delle migliori, riservate pei forestieri; e, quando i forestieri erano troppi, le persone di famiglia sloggiavano, e spesso si accatastavano in piccolo spazio per far luogo ai nuovi venuti. Non di rado, per altro, a causa di questi incomodi traslochi, avvenivano dei fatti molto spiacevoli, e solo l'abitudine ne poteva attenuare il disgusto.

Mi ricordo ancora di quello che, a a questo proposito, accadde a me. Potevo avere un tredici o quattordici anni, e mi trovavo, appunto per una festa, alloggiato in una ricca famiglia di un paese non molto lontano da Colledara. L'ultimo giorno della festa, avvenne che i padroni di casa, avendo, per una strana combinazione, creduto che io me ne fossi già andato via, la sera chiusero senz'altro il portone e lasciarono fuori me che, invece d'esser partito, me ne ero andato, senza dare alcun avviso, a un teatro di bambini. Quando tornai, naturalmente un po' tardi, sentii ghiacciarmi il cuore al vedermi davanti, contro il solito, quel portone chiuso. Cominciai a picchiare, ma nessuno rispondeva. Quei di casa, stanchi della festa e delle tante noie, respirando a pieni polmoni la libertà, erano andati a letto ben per tempo, e dormivano tutti profondamente, lieti d'aver rioccupato, dopo tanti incomodi e tante sofferenze, le loro camere e i loro letti; e si godevano il meritato riposo. E, io, disperato, tornavo a picchiare furiosamente. Finalmente si sentì un passo, e il portone si aprì. Apparve, vestito molto in fretta, il padrone di casa; e si maravigliò vedendomi, e mi spiegò perchè avevano creduto che io fossi partito. Ma, comunque fosse andata la cosa, in quel momento bisognava pensare al rimedio. Mi lasciò solo in un andito. Quello che accadesse precisamente, non so; ma certo egli fu obbligato a svegliare quelli che dormivano saporitamente, a farli alzare e a far loro riprendere le incomode posizioni, già lasciate con tanta gioia; e, così tra il sonno, chi sa che grugniti e che moccoli ! Io, intanto, aspettavo nell'andito, e i minuti mi parevano secoli. Finalmente, il padrone ricomparve e mi pregò di seguirlo. Non so bene perchè, forse perchè vi dormiva qualcuno che non andava disturbato in nessun modo, non mi fu assegnata la camera che avevo occupata la notte avanti, ma un'altra; e, per potervi andare fui costretto ad attraversare la camera di una ragazza di diciotto anni, figlia del padrone. Mi ricordo ancora di quei fianchi giovanili che tondeggiavano di sotto l'indiscreta coperta di estate, con tutto che la poveretta avesse cercato, al mio passaggio, di restringersi e raggomitolarsi e di prendere la posizione meno vistosa che fosse possibile. Quando arrivai nella mia camera, c'erano ancora, in qualche oggetto dimenticato, i segni manifesti di una fuga improvvisa; e, quando entrai nel letto, nonostante le lenzuola di bucato, che v'erano state messe in tutta fretta, sentii ancora le materasse calde della persona che v'aveva dormito, e in braccio chi sa a quali sogni dorati. Io almanaccavo chi aveva potuto essere: la ragazza no certo, perchè riposava nel suo solito letto.

Questa era davvero ospitalità, e un'ospitalità che costava ben caro. Per altro, ho dovuto poi constatare con l'esperienza che non c'è paese il quale non si dia il vanto d'ospitalità. Ospitali amano chiamarsi anche quelle città dove gli stessi amici più intimi cercano di non farti sapere dove stanno di casa. Molti, dinanzi a tale apparente contradizione, fanno le più alte meraviglie, ma non pensano che quei luoghi si sono acquistati il nome di ospitali fin dai tempi in cui vigeva l'uso di divorare i forestieri via via che arrivavano. I primi, che, spinti da un nuovo, inesplicabile senso di pietà, cominciarono a rispettare le carni di quei disgraziati, si guadagnarono il nome di ospitali, e così poi fecero via via tutti gli altri che ne seguirono l'esempio. E, oggi, si continua a chiamare, per tradizione, ospitali i paesi, solo perchè lasciano vivi e non divorano i loro ospiti.

Ma, mentre noi ci perdiamo in chiacchiere, Giovacchino ha finito di allestire il pranzo, e tutto è pronto. Veramente il mezzogiorno è già passato quasi da un'ora; e nei visi di tutti gl'invitati già comincia a riflettersi l'angoscia e l'impazienza degli stomachi; ma bisogna menar buono il ritardo a Giovacchino. Egli non è mai riuscito ad acquistare una idea sicura e precisa del tempo, e in quest'argomento, è abituato a considerare le cose senz'ombra di pedanteria. Ma ecco, alla fine, tutti sono a tavola, e ognuno divora avidamente, con la bocca, la pietanza che ha davanti, e, con la fantasia, quelle che dovranno venire e gli sono promesse in compendio dalla indiscussa riputazione della famiglia, o, meglio, dai profumi che vengono dalla cucina. Tutte quelle persone sono abituate, nei giorni ordinarii, a un cibo parco e poco squisito, e perciò bisogna scusarle se si gettano con tanto ardore a far la festa alle pietanze. Ma, a questo mondo, dicono gli egoisti, non bisogna essere egoisti; e perciò non mancano quelli che, oltre a pensare a se stessi, pensano anche a quelli che sono rimasti a casa,  tengono sulle ginocchia un giornale, o un fazzoletto (perchè no?), ove fanno cadere, di tanto in tanto, qualche coscia di pollo arrosto, qualche pezzo di fritto di latte, di torta (pizza dolce) per portarlo a casa, o alla moglie, o ai bambini, o forse anche alla serva.

In generale le donne se ne rimanevano a casa a lavorare, seguendo la massima romana domi mansit, lanam fecit, e erano i soli uomini che tenevano gl'inviti, mandati per gentilezza all'intera famiglia: tutt'al più essi si lasciavano accompagnare, cedendo ai pianti, da qualche bambino maleducato, che serviva, con qualche capriccio malestro, ad accrescere il rumore e lo scompiglio. Ma neppur le. donne di casa, d'ordinario, prendevano parte ai pranzi. L'uso crudele cominciò poi a perdersi a poco a poco; ma nella mia fanciullezza esso era quasi sempre osservato. Ho già detto che la mia mamma, in occasione di pranzi solenni, se ne rimaneva in cucina per dirigere le operazioni. Così gli uomini, preti e secolari, erano più liberi nei loro motti e nei loro frizzi, che suscitavano, ogni tanto, vere fragorose tempeste di risa e di applausi. Ma nella prima parte del pranzo, regnava, in generale, un silenzio minaccioso, e c'era altro da pensare che a motti e a frizzi.

Il pranzo, ordinariamente, non era, dirò così, semplice, ma composto di due pranzi ben distinti, riuniti insieme. Il primo pranzo cominciava con la minestra in brodo; e veniva poi il lesso, l'arrosto di pollo e che so io: il secondo pranzo cominciava coi maccheroni: poi seguiva lo stracotto, il fritto di latte e tutti quei piatti che la fantasia del cuoco e la borsa del proprietario sapevano e potevano mettere insieme; e la serie delle pietanze si chiudeva con la porchetta. Per ultimo venivano, naturalmente, le frutta e il dolce. L'arrivo della porchetta era generalmente salutato con urli e applausi caldi come il vino cotto, dal quale le teste erano ormai riscaldate. La porchetta, lo dirò per quelli che non lo sapessero, è un porcellino di latte, arrostito al forno; e vien portata in tavola così intera, col suo bel color d'oro, e con una mela o un arancio fra i denti. Essa consta, si può dire, di quattro parti; 1' una più buona déll' altra; e c'è chi preferisce una o due di esse, e chi le preferisce tutte: voglio dire la crosta (ossia la pelle rosolata), il grasso, la carne e il ripieno, tutto formato di pezzettini di fegato, di polmone, e di altre ghiottonerie fornite dalla generosità e dall'abnegazione dello stesso porcellino.

E così quella brava gente mangiava e beveva per due o tre ore; e i piatti non soltanto erano infiniti, ma ciascuno, alla sua volta, d'una veramente omerica abbondanza. «Meglio una pasqua», dice un proverbio abruzzese, «che cento pasquette». In un pranzo di nozze, cominciato a mezzogiorno, mi ricordo che si finì di mangiare coi lumi accesi, ed era d'estate. Il pranzo e la cena formarono, così, una cosa sola; e lo stomaco digeriva e si veniva di nuovo riempiendo nello stesso tempo. Parimenti il boa, quando va inghiottendo, dopo d'averla ben stritolata, una grossa preda, per esempio un cavallo; nel tempo che digerisce la parte ingoiata, tiene ancora ingombra sconciamente la bocca, e ne avanza gran quantità al di fuori, di quel che gli resta ancora da ingoiare.

Dopo il pranzo venivano le visite agli amici e ai parenti del villaggio stesso o dei villaggi vicini. E qui di nuovo una gran quantità di vini, di rosolii, di confetti o di paste. E bisognava accettare e mangiare; se no, erano aspre questioni e minacce. Una signora un po' nervosa, che si distingueva pel suo odio accanito contro i capelli voltati all'insù, ossia per i cosiddetti ciuffi, portati dalla rivoluzione, e si ostinava alle staffe che scendevano ai lati della fronte e ricoprivano -gli orecchi (una specie d'acconciatura alla De Mérode) aveva più volte gettato fuori dalla finestra le paste e i confetti rifiutati. Dopo questi atti, così energici e risoluti, rinnovatisi spesso, tutti si affrettavano a contentarla; ma, se per caso capitava qualche novizio ribelle, essa ripeteva la minaccia, e dovevano accorrere quelli che conoscevano la serietà dei suoi propositi, per trattenerla. E voleva non solo che ognuno si servisse per se stesso, ma anche per i parenti lasciati a casa; e riempiva lei medesima le tasche della gente, la quale, come dice delle donne un poeta calunniatore, si difendeva e desiderava di esser vinta.

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Sommario

Introduzione e indice

Testo: 1 - Colledara e il Gran Sasso; 2 - I nonni; 3 - L’eccidio di Brozzi; 4 - L’Italia una e indipendente. Garibaldi; 5 - I briganti; 6 - La famiglia si trasferisce a Teramo; 7 - La madre di Fedele; 8 - Il padre di Fedele; 9 - Lo studio del padre; 10 - Le persone del villaggio; 11 - La chiesa di Colledara; 12 - Il pranzo; 13 - Il ballo; 14 - La vita a Colledara

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